domenica 5 marzo 2017

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sabato 12 novembre 2016

Epigrammi licenziosi di MARZIALE



190 epigrammi 8-72-2016


EPIGRAMMI dal Libro 1 (n. 13)

I. 23
Invitas nullum nisi cum quo, Cotta, lavaris
et dant convivam balnea sola tibi.
Mirabar, quare numquam me, Cotta, vocasses:
iam scio, me nudum displicuisse tibi.
I. 23
Tu, Cotta, non inviti a cena se non colui con cui ti sei lavato,
e a te solo le terme procurano un commensale.
Mi meravigliavo, Cotta, perché non avessi mai invitato me.
Ormai so che io nudo non ti sono piaciuto.
I. 24
Aspicis incomptis illum, Deciane, capillis,
cuius et ipse times triste supercilium,
qui loquitur Curios adsertoresque Camillos?
Nolito fronti credere: nupsit [1] heri.
I. 24
Lo vedi, Deciano, quel tipo dai capelli spettinati,
del quale anche tu temi il sopracciglio severo,
che sempre nomina i Curii e i difensori Camilli?
Non credere al suo volto: ieri ha preso marito.
I. 31
Hos tibi, Phoebe, vovet totos a vertice crines
Encolpos, domini centurionis amor,
grata Pudens meriti tulerit cum praemia pili.
Quam primum longas, Phoebe, recide comas,
dum nulla teneri sordent lanugine voltus
dumque decent fusae lactea colla iubae;
utque tuis longum dominusque puerque fruantur
muneribus, tonsum fac cito, sero virum.
I. 31
A te, o Febo, tutti questi capelli della sua testa dedica
Encolpo, amore del padrone centurione,  
se Pudente riporterà in premio il grado meritato di primipilo.
Taglia, o Febo, i lunghi capelli il prima possibile,
mentre nessun pelo macchia il suo tenero volto,
mentre il latteo collo si addice alle lunghe ciocche:
e a che sia fanciullo che padrone godano a lungo
dei tuoi doni, fallo presto rasato, tardi uomo.
I. 34
Incustoditis et apertis, Lesbia, semper
liminibus peccas nec tua furta tegis,
et plus spectator quam te delectat adulter
nec sunt grata tibi gaudia si qua latent.
At meretrix abigit testem veloque seraque
raraque Submemmi fornice rima patet.
a Chione saltem vel ab Iade disce pudorem:
abscondunt spurcas et monumenta lupas.
Numquid dura tibi nimium censura videtur?
Deprendi veto te, Lesbia, non futui.
I. 34
A porte sempre incostudite e aperte, o Lesbia,  
tu pecchi e non nascondi i tuoi intrighi;
e più uno spettatore ti dà piacere che un amante,
e non ti sono graditi i godimenti se restano nascosti.
Eppure la meretrice allontana i testimoni con tenda e spranga,
e raramente nel bordello del Summemmio una fessura si vede.
Impara il pudore almeno da Giada o da Chione:
anche luride troie si nascondono tra le tombe.
Per caso il mio rimprovero ti sembra troppo duro?
Ti proibisco di farti scorgere, non di farti fottere.
I. 35
Versus scribere me parum severos
nec quos praelegat in schola magister,
Corneli, quereris: sed hi libelli,
tamquam coniugibus suis mariti,
non possunt sine mentula placere.
Quid si me iubeas talassionem
verbis dicere non talassionis?
Quis Floralia vestit et stolatum
permittit meretricibus pudorem?
Lex haec carminibus data est iocosis,
ne possint, nisi pruriant, iuvare.
Quare deposita severitate
parcas lusibus et iocis rogamus,
nec castrare velis meos libellos.
Gallo turpius est nihil Priapo.
I. 35
Ti lamenti che io scrivo versi poco severi
e che un maestro a scuola non potrebbe leggere,
o Cornelio: ma questi libretti,
come i mariti alle loro mogli, 
non possono piacere senza cazzo.
Che cosa ne sarebbe se tu mi chiedessi di recitare
un canto nuziale con parole non da canto nuziale?
Chi impone vestiti alle feste di Flora
e permette alle puttane il pudore stolato [2]?
Questa è la legge stabilita per le poesie giocose:
che non possono divertire se non sono pruriginose.
Ragion per cui, deposta la serietà,
perdona - ti prego – i giochi e gli scherzi,
e non voler castrare le mie composizioni.
Nulla è più schifoso di un Priapo evirato.
I. 46
Cum dicis 'Propero, fac si facis,' Hedyle, languet
protinus et cessat debilitata Venus.
Expectare iube: velocius ibo retentus.
Hedyle, si properas, dic mihi, ne properem.
I. 46
Quando dici “ Ho fretta, sbrigati ”, Edilo [3], subito
la mia libidine si smorza e si spegne.
Fammi attendere; rilassato andrò più veloce.
Edilo, se hai fretta, dimmi di non avere fretta.
I. 58
Milia pro puero centum me mango poposcit:
risi ego, sed Phoebus protinus illa dedit.
Hoc dolet et queritur de me mea mentula secum
laudaturque meam Phoebus in invidiam.
Sed sestertiolum donavit mentula Phoebo
bis decies: hoc da tu mihi, pluris emam.
I. 58
Centomila sesterzi per un ragazzino un mercante mi chiese.
Mi misi a ridere io, ma Febo glieli diede all'istante.
Di ciò si dispiace il mio cazzo, si lamenta fra se stesso
contro di me e loda Febo per farmi dispetto.
Ma a Febo il cazzo ha procurato due milioni
di sesterzi: dammi ciò tu, te ne comprerò di più cari.
I. 73
Nullus in urbe fuit tota qui tangere vellet
uxorem gratis, Caeciliane, tuam,
dum licuit: sed nunc positis custodibus ingens
turba fututorum est: ingeniosus homo es.
I. 73
Nessuno c'era in tutta la città che volesse toccare
tua moglie gratis, o Ceciliano,
quand'era possibile. Ma ora che le hai messo custodi,
c'è una gran folla di fottitori: sei uomo ingegnoso.
I. 83.
Os et labra tibi lingit, Manneia, catellus:
non miror, merdas si libet esse cani.
I. 83
Bocca e labbra ti lecca, Manneia, il tuo cagnolino:
non mi stupisco, se a un cane piace mangiare la merda.
I. 84
Uxorem habendam non putat Quirinalis,
cum velit habere filios, et invenit
quo possit istud more: futuit ancillas
domumque et agros implet equitibus vernis[4]
Pater familiae verus est Quirinalis.
I. 84
Non pensa di dovere prender moglie Quirinale,
pur volendo avere figli, e ha trovato
in che modo possa ciò: scopa le sue ancelle 
e riempie la casa e la campagna di cavalieri nati schiavi.
Un vero padre di famiglia è Quirinale.
I. 90
Quod numquam maribus iunctam te, Bassa, videbam
quodque tibi moechum fabula nulla dabat,
omne sed officium circa te semper obibat
turba tui sexus, non adeunte viro,
esse videbaris, fateor, Lucretia nobis:
at tu, pro facinus, Bassa, fututor eras.
Inter se geminos audes committere cunnos
mentiturque virum prodigiosa Venus.
Commenta es [5] dignum Thebano aenigmate monstrum,
hic ubi vir non est, ut sit adulterium.
I. 90
Dato che, o Bassa, io non ti vedevo mai in compagnia di maschi
e nessun pettegolezzo ti assegnava un amante,
e una folla di persone del tuo sesso eseguiva intorno a te
ogni compito, senza che un uomo si avvicinasse,
mi sembravi - lo confesso - una Lucrezia.
Ma tu, o Bassa, - che vergogna – eri un fottitore.
Osi accoppiare tra loro fiche gemelle,
e la tua stravagante lussuria ti fa contraffare il maschio.
Hai escogitato un prodigio degno dell'enigma tebano,
così che ove uomo non c'è, ci sia adulterio.
I. 92
Saepe mihi queritur non siccis Cestos ocellis,
tangi se digito, Mamuriane, tuo.
Non opus est digito: totum tibi Ceston habeto,
si dest nil aliud, Mamuriane, tibi.
Sed si nec focus est nudi nec sponda grabati
nec curtus Chiones Antiopesve calix,
cerea si pendet lumbis et scripta lacerna
dimidiasque nates Gallica paeda tegit,
pasceris et nigrae solo nidore culinae
et bibis inmundam cum cane pronus aquam:
I. 92
Spesso con me Cesto si lamenta con occhi non asciutti
che tu, Mamuriano, lo tocchi con un dito. [6]
Non c'è bisogno del dito: prenditelo tutto Cesto, 
qualora a te non manchi nient'altro, Mamuriano.
Ma se non hai né un focolare né la sponda di un nudo lettuccio,
né un bicchiere sbreccato degno delle Chioni o delle Antiopi,
se ti pende dai fianchi una mantellina giallastra e macchiata,
se una mutanda gallica ti copre le chiappe a metà,
se ti nutri soltanto con l'odore di una cucina annerita,
se ti disseti con acqua sporca, insieme ai cani,
non culumneque enim est culus, qui non cacat olim,
sed fodiam digito qui superest oculum;
nec me zelotypum nec dixeris esse malignum.
Denique pedica, Mamuriane, satur.
allora non il culo, perché non è culo quello che non caca mai,
ti perforerò col mio dito, ma il solo occhio che ti resta;
e non chiamarmi per questo invidioso o cattivo.
Perciò incula pure, Mamuriano, ma a pancia piena.
I. 96
Si non molestum est teque non piget, scazon,
nostro rogamus pauca verba Materno
dicas in aurem sic ut audiat solus.
Amator ille tristium lacernarum
et baeticatus atque leucophaeatus,
qui coccinatos non putat viros esse
amethystinasque mulierum vocat vestes,
nativa laudet, habeat et licet semper
fuscos colores, galbinos habet mores.
I. 96
Se non ti dà fastidio e non ti secca, o mio verso scazonte,
chiediamo una piccola cosa al nostro Materno:
digliela tu nell'orecchio, così che solo lui la senta.
Quel tizio che ama i mantelli malinconici,
che si veste di lana andalusa e di tinte grigie,
che crede che quelli vestiti di rosso fuoco non siano uomini veri,
che chiama le vesti color ametista indumenti femminili,
per quanto lodi i colori della sua terra e sempre
si vesta di colori scuri, ha modi da frocio.
Rogabit unde suspicer virum mollem.
Una lavamur: aspicit nihil sursum,
sed spectat oculis devorantibus draucos
nec otiosis mentulas videt labris.
Quaeris quis hic sit? Excidit mihi nomen.
Mi chiederai da cosa io sospetti che sia un effeminato.
Facciamo il bagno assieme: non guarda mai sopra la cintura,
ma guarda fisso i palestrati divorandoseli con gli occhi, e quando vede cazzi si lecca le labbra.
Chiedi chi sia? Mi sfugge il nome.

EPIGRAMMI da Libro 2  (n. 22)

X.
Basia dimidio quod das mihi, Postume, labro,
laudo: licet demas hinc quoque dimidium.
Vis dare maius adhuc et inenarrabile munus?
Hoc tibi habe totum, Postume, dimidium.
II. 10
Che tu mi dia baci a mezza bocca, Postumo,
io lodo: ma ti è permesso toglierne anche metà.
Vuoi farmi un piacere ancora più grande e indicibile?
Tieniti, Postumo, tutta questa metà.
XVII.
Tonstrix Suburae faucibus sedet primis,
cruenta pendent qua flagella tortorum
Argique Letum multus obsidet sutor:
sed ista tonstrix, Ammiane, non tondet,
non tondet, inquam. Quid igitur facit? Radit.
II. 17
Una tosatrice sta seduta alle prime fauci della Suburra,
là dove pendono sferze insanguinate dei carnefici,
e molte botteghe di calzolai si affacciano sull'Argileto.
Questa tosatrice però, Ammiano, non tosa,  
non tosa, ti dico. Allora cosa fa? Te lo scortica.
XXVIII.
Rideto multum qui te, Sextille, cinaedum
dixerit et digitum porrigito medium.
Sed nec pedico es nec tu, Sextille, fututor[7] 
calda Vetustinae nec tibi bucca placet.
Ex istis nihil es fateor, Sextille: quid ergo es?
Nescio, sed tu scis res superesse duas.
II. 28
Sorridi molto di chi ti ha chiamato finocchio,
Sestillo, e mostragli il dito medio teso.
Ma tu non sei né uno che incula [ragazzi] né che fotte, Sestillo,
e non ti piace neanche la calda bocca di Vetustina.
Non sei nulla di queste cose, lo ammetto, o Sestilio: allora che sei?
Non so, ma tu sai che sono rimaste due cose. [8]
XLIII.
Koina philon haec sunt, haec sunt tua, Candide, koina,
quae tu magnilocus nocte dieque sonas:
te Lacedaemonio velat toga lota Galaeso
vel quam seposito de grege Parma dedit:
at me, quae passa est furias et cornua tauri,
noluerit dici quam pila prima suam. 
II. 43
Ecco il senso, eccolo, Candido, di quel tuo «Tutto in comune
tra gli amici, tutto», che tu vanaglorioso ripeti notte e giorno.
Tu ti vesti con lana lavata nelle acque dello spartano Galeso
o con quella che ci viene dai greggi selezionati di Parma;
io con quella che non vorrebbe fosse detta sua quel fantoccio
che per primo ha subito nell'arena la furia e le corna del toro.
Misit Agenoreas Cadmi tibi terra lacernas:
non vendes nummis coccina nostra tribus.
Tu Libycos Indis suspendis dentibus orbis: 
fulcitur testa fagina mensa mihi. 
A te la terra di Cadmo Agenoreide [9] manda i suoi mantelli tirii:
il mio mantello scarlatto non lo venderesti per tre sesterzi.
Tu hai tavoli di cedro libico, che poggiano su piedi d'avorio;
il mio tavolo di faggio è sostenuto da un mattone.
Inmodici tibi flava tegunt chrysendeta mulli: 
concolor in nostra, cammare, lance rubes. 
Grex tuus Iliaco poterat certare cinaedo: 
at mihi succurrit pro Ganymede manus. 
Ex opibus tantis veteri fidoque sodali 
das nihil et dicis, Candide, Koina philon?
Enormi triglie coprono il tuo vasellame d'oro;
nel mio rosso piatto rosseggi tu, gambero, che hai lo stesso colore.
Il tuo gregge[10] potrebbe gareggiare col finocchio troiano;
a me dà aiuto la mano, al posto di Ganimede.
Di tante ricchezze non dài nulla a un vecchio e fedele amico,
e osi dire, o Candido: «Tutto in comune tra gli amici”?
XLV.
Quae tibi non stabat praecisa est mentula, Glypte.
Demens, cum ferro quid tibi? Gallus eras.
II. 45
Il tuo cazzo che non ti si drizzava, Glitto, è stato castrato.
Pazzo, che bisogno c'era del ferro? Eri già un Gallo.
XLVII.
Subdola famosae moneo fuge retia moechae,
levior o conchis, Galle, Cytheriacis.
Confidis natibus? Non est pedico maritus;
quae faciat duo sunt: irrumat aut futuit.
II. 47
Ti consiglio di fuggire le subdole reti dell'infame adultera,
tu Gallo che sei più liscio delle conchiglie di Venere.
Conti sulle natiche? Suo marito non è uno che incula [ragazzi];
le cose che farebbe sono due: lo mette in bocca o fotte.
XLVIII.
Coponem laniumque balneumque,
tonsorem tabulamque calculosque
et paucos, sed ut eligam, libellos:
unum non nimium rudem sodalem
et grandem puerum diuque levem
et caram puero meo puellam:
haec praesta mihi, Rufe, vel Butuntis,
et thermas tibi habe Neronianas.
II. 48
Un oste, un macellaio, un bagno pubblico,
un barbiere, una scacchiera coi suoi pezzi,
pochi libri ma scelti da me,
un amico che abbia un po' di cultura, 
uno schiavetto già grandicello e che resti a lungo liscio, 
una fanciulla che sia gradita al mio schiavetto:
dammi, o Rufo, queste cose anche a Bitonto
e tieni per te le terme di Nerone.
                XLIX.
Uxorem nolo Telesinam ducere: quare?
Moecha est. Sed pueris dat Telesina: volo.
II. 49
Non voglio sposare Telesina. Perché?
È un'adultera. Ma Telesina si dà ai fanciulli. Voglio.
L.
Quod fellas et aquam potas, nil, Lesbia, peccas:
qua tibi parte opus est, Lesbia, sumis aquam.
II. 50
Dato che tu, Lesbia, spompini e poi bevi acqua, non sbagli:
tu, o Lesbia, prendi l'acqua dalla parte da cui ti bisogna.
LI.
Unus saepe tibi tota denarius arca
cum sit et hic culo tritior, Hylle, tuo,
non tamen hunc pistor, non auferet hunc tibi copo,
sed si quis nimio pene superbus erit.
Infelix venter spectat convivia culi,
et semper miser hic esurit, ille vorat.
II. 51
Poiché in tutto il tuo scrigno spesso non c'è
che un solo denario, e questo è più logoro del tuo culo, o Illo,
ebbene questo non il fornaio, questo non l'oste ti porterà via,
ma colui che andrà superbo per il suo enorme pene.
Infelice lo stomaco osserva i pranzi del culo,
e questo soffre sempre la fame, l'altro si rimpinza.
LIV.
Quid de te, Line, suspicetur uxor
et qua parte velit pudiciorem,
certis indiciis satis probavit,
custodem tibi quae dedit spadonem.
Nil nasutius hac maligniusque.
II. 54
Cosa di te, o Lino, sospetti tua moglie
e in quale parte ti voglia più pudico,
l'ha dimostrato a sufficienza con sicuri indizi,
assegnandoti lei come guardiano un eunuco.
Niente di più acuto e di più maligno di costei.
LV.
Vis te, Sexte, coli: volebam amare.
Parendum est tibi: quod iubes, coleris;
sed si te colo, Sexte, non amabo.
II. 55
Tu vuoi, Sesto, essere rispettato: io volevo amarti.
Ma bisogna ubbidirti: sarai rispettato, come imponi.
Ma se ti rispetto, Sesto, non ti amerò.
LVI.
Gentibus in Libycis uxor tua, Galle, male audit
inmodicae foedo crimine avaritiae.
Sed mera narrantur mendacia: non solet illa
accipere omnino. Quid solet ergo? Dare.
II. 56
Tra le genti d'Africa corre la brutta voce che tua moglie
ha il ripugnante vizio dell'insaziabile avarizia.
Ma si raccontano pure menzogne: lei non suole
affatto prendere. E che suole fare allora? Dare.
                                                                               



LX.
Uxorem armati futuis, puer Hylle, tribuni,
supplicium tantum dum puerile times.
Vae tibi! dum ludis, castrabere. Iam mihi dices
'Non licet hoc'. Quid? tu quod facis, Hylle, licet?
II. 60
O Illo ragazzino, ti fotti la moglie di un tribuno militare
mentre temi solo il castigo che si dà ai fanciulli.
Guai a te! Mentre giochi, castrato. Subito mi dirai:
«Ciò non è permesso» «E che? quel che tu fai, Illo, è permesso?»
LXI.
Cum tibi vernarent dubia lanugine malae,
lambebat medios improba lingua viros.
Postquam triste caput fastidia vispillonum
et miseri meruit taedia carnificis,
uteris ore aliter nimiaque aerugine captus
adlatras nomen quod tibi cumque datur.
Haereat inguinibus potius tam noxia lingua:
nam cum fellaret, purior illa fuit.
II. 61
Quando le guance ti fiorivano d'incerta lanugine,
la tua sporca lingua leccava le parti centrali dei maschi.
Da quando il tuo capo è diventato ripugnante
al becchino e al miserabile carnefice,
fai un altro uso della bocca, e dominato da indicibile invidia
respingi urlando qualunque nome ti si dà.
Una lingua così perversa rimanga attaccata agli inguini:
infatti era meno lurida quando succhiava.
LXII.
Quod pectus, quod crura tibi, quod bracchia vellis,
quod cincta est brevibus mentula tonsa pilis,
hoc praestas, Labiene, tuae - quis nescit? - amicae.
Cui praestas, culum quod, Labiene, pilas?
II. 62
Che tu ti depili il petto, le gambe e le braccia,
che la tua rasata minchia è cinta da corti peli,
assicuri che ciò, Labieno - chi non lo sa! -, è per la tua amante.
Ma per chi lo fai, Labieno, che ti depili il culo?
LXIII.
Sola tibi fuerant sestertia, Miliche, centum,
quae tulit e sacra Leda redempta via.
Miliche, luxuria est si tanti dives amares.
'Non amo' iam dices: haec quoque luxuria est.
II. 63
Avevi, Milico, solo centomila sesterzi,
che hai speso per prenderti Leda dalla via Sacra.
Milico, sfrenatezza è se tu, pur ricco, amavi a tanto prezzo.
«Non l'amo», già dirai: pure questo è sfrenatezza.
LXX.
Non vis in solio prius lavari
quemquam, Cotile: causa quae, nisi haec est,
undis ne fovearis irrumatis[11]
Primus te licet abluas: necesse est
ante hic mentula quam caput lavetur.
II. 70
Non vuoi che qualcuno si lavi nella vasca
prima di te, Cotilo. Quale motivo c'è, se non questo,
che non vuoi lavarti in acque che hanno sperma?
Ti è concesso lavarti per primo: è necessario
che qui ti lavi il cazzo prima della testa.
                                                                               
LXXIII.
Quid faciat volt scire Lyris. Quid? Sobria fellat.
II. 73
Vuole sapere cosa fa Liri. Cosa? da sobria spompina.
LXXXIII.
Foedasti miserum, marite, moechum,
et se, qui fuerant prius, requirunt
trunci naribus auribusque voltus.
Credis te satis esse vindicatum?
Erras: iste potest et irrumare.
II. 83
Hai deturpato, marito, l'infelice adultero:
e il volto privato del naso e delle orecchie
ricerca il suo aspetto primitivo.
Credi di esserti vendicato abbastanza?
Sbagli: costui può ancora metterlo in bocca.
LXXXVIII.
Nil recitas et vis, Mamerce, poeta videri:
quidquid vis esto, dummodo nil recites.
II. 88
Non declami mai poesie, Mamerco, e vuoi sembrare poeta.
Sii pure ciò che vuoi, purché non declami nulla.
LXXXIX.
Quod nimio gaudes noctem producere vino
ignosco: vitium, Gaure, Catonis habes.
Carmina quod scribis Musis et Apolline nullo
laudari debes: hoc Ciceronis habes.
Quod vomis, Antoni: quod luxuriaris, Apici.
Quod fellas, vitium dic mihi cuius habes?
II. 89
Che tu goda a passare la notte in abbondante vino,
lo concedo: hai, Gauro, il vizio di Catone.
Che tu scriva poesie non ispirate da Muse o Apollo,
deve essere lodato: hai il vizio di Cicerone.
Che tu vomiti, di Antonio; che tu sia ghiottone, di Apicio.
Che tu spompini, dimmelo, il vizio di chi hai?




EPIGRAMMI da Libro 3 (n. 20)

8
Thaida Quintus amat. Quam Thaida? Thaida luscam.
Vnum oculum Thais non habet, ille duos.
III. 8
«Quinto ama Taide.» «Quale Taide?» «Taide la guercia.»
«Taide è cieca d'un occhio, egli di tutti e due.»
39
Iliaco similem puerum, Faustine, ministro
lusca Lycoris amat. Quam bene lusca videt!
III. 39
Licoride la guercia ama, o Faustino, un ragazzo simile
al coppiere troiano[12]. Come ci vede bene la guercia!
65
Quod spirat tenera malum mordente puella,
quod de Corycio quae venit aura croco;
vinea quod primis cum floret cana racemis,
gramina quod redolent, quae modo carpsit ovis;
quod myrtus, quod messor Arabs, quod sucina trita,
pallidus Eoo ture quod ignis olet;
gleba quod aestiuo leuiter cum spargitur imbre,
quod madidas nardo passa corona comas:
III. 65
Quello che emana da una tenera fanciulla mentre morde una mela,
quello che si diffonde con un soffio dallo zafferano di Coricio;
dalla vigna quando fiorisce, cenerina per i primi grappoli,
dal pascolo erboso, or ora brucato dalle pecore;
l'odore del mirto, del mietitore arabo, dell'ambra fatta in pezzi,
del fuoco reso pallido per l'incenso orientale che vi brucia;
che si spande dalla zolla d'erba dopo la lieve pioggia estiva,
che si propaga dalla ghirlanda posta su chiome madide di nardo:
hoc tua, saeve puer Diadumene, basia fragrant.
Quid si tota dares illa sine invidia?
di questo profumano i tuoi baci, Diadumeno, selvatico fanciullo.
Ah! Cosa sarebbe se me li dessi tutti senza farmeli penare?
70
Moechus es Aufidiae, qui vir, Scaevine, fuisti;
rivalis fuerat qui tuus, ille vir est.
Cur aliena placet tibi, quae tua non placet, uxor?
Numquid securus non potes arrigere?
III. 70
Sei l'amante di Aufidia, tu che eri stato il suo sposo, Scevino;
quello che era stato tuo rivale, ora è il suo sposo.
Perché ti piace come moglie di altri, chi come moglie tua non ti piace?
Forse che non ti si drizza, quando ti senti sicuro?
71
Mentula cum doleat puerotibi, Naevole, culus,
non sum divinus, sed scio quid facias.
III. 71
Poiché al ragazzo fa male il cazzo e a te, Nevolo, il culo,
non sono indovino, ma so quel che fai.
                                                                               

72
Vis futui nec vis mecum, Saufeia, lauari:
nescio quod magnum suspicor esse nefas.
Aut tibi pannosae dependent pectore mammae
aut sulcos uteri prodere nuda times
aut infinito lacerum patet inguen hiatu
aut aliquid cunni prominet ore tui.
Sed nihil est horum, credo, pulcherrima nuda es.
Si verum est, vitium peius habes: fatua es.
III. 72
Vuoi farti scopare ma non vuoi Saufeia, fare il bagno con me. Temo che ci sia sotto qualche grosso inconveniente.
O ti pendono dal petto flosce mammelle
o temi di mostrare da nuda le rughe dell'utero,
o la tua vagina presenta un'enorme apertura,
o c'è qualche protuberanza sulle sue labbra.
Ma non è nulla di tutto ciò, penso: nuda sei bellissima.
Ma se è così, hai un difetto peggiore: sei una smorfiosa.
73
Dormis cum pueris mutuniatis,
et non stat tibi, Phoebe, quod stat illis.
Quid vis me, rogo, Phoebe, suspicari?
Mollem credere te virum volebam,
sed rumor negat esse te cinaedum[13]
III. 73
Tu dormi con ragazzi superdotati,
e a te non sta dritto, Febo, quello che sta dritto a loro.
Che cosa vuoi, ti chiedo o Febo, che io sospetti?
Volevo crederti uomo effeminato,
ma le dicerie negano che tu sia un cinedo.
75
Stare, Luperce, tibi iam pridem mentula desit,
luctaris demens tu tamen arrigere.
Sed nihil erucae faciunt bulbique salaces,
inproba nec prosunt iam satureia tibi.
Coepisti puras opibus corrumpere buccas:
sic quoque non vivit sollicitata Venus.
Mirari satis hoc quisquam vel credere possit,
quod non stat, magno stare, Luperce, tibi?
III. 75
Già da tempo, Luperco, il tuo cazzo ha smesso di stare duro,
e tuttavia tu pazzo ti sforzi perché si drizzi.
Ma non hanno nessun effetto né la ruca né le cipolle eccitanti,
e la lasciva santoreggia non ti dà più nessun aiuto. 
Coi soldi hai cominciato a corrompere bocche innocenti.
Ma neppure eccitato così la tua libidine si sveglia.
Come potrebbe uno stupirsi abbastanza o credere
che ciò che non si drizza ti si drizzi, Luperco, a caro prezzo?
76
Arrigis ad vetulas, fastidis, Basse, puellas,
nec formonsa tibi, sed moritura placet.
Hic, rogo, non furor est, non haec est mentula demens?
Cum possis Hecaben, non potes Andromachen!
III. 76
Ti ecciti con le vecchie, ma disdegni, Basso, le ragazze;
non una bella donna, ma una moribonda ti piace.
Non è questa, ti chiedo, follia? non è un cazzo demente questo?
visto che ci riesci con Ecuba, ma non ci riesci con Andromaca?
78
Minxisti currente semel, Pauline, carina.
Meiere [14] vis iterum? Iam Palinurus eris.
III. 78
Te ne sei venuto una volta, Paolino, mentre la barca correva.
Vuoi eiaculare di nuovo? Sarai un Palinuro.
79
Rem peragit nullam Sertorius, inchoat omnes:
hunc ego, cum futuit, non puto perficere.
III. 79
Nessuna cosa porta a termine Sertorio, tutte le incomincia.
Costui quando fotte, credo che non conclude.
81
Quid cum femineo tibi, Baetice galle, barathro?
Haec debet medios lambere lingua viros.
Abscisa est quare Samia tibi mentula testa,
si tibi tam gratus, Baetice, cunnus erat?
Castrandum caput est: nam sis licet inguine gallus,
sacra tamen Cybeles decipis: ore vir es.
III. 81
Che c'entri tu, o betico Gallo, con un buco femminile? 
la tua lingua deve leccare fra le cosce dei maschi.
Perché la minchia ti è stata amputata con un coccio di Samo,
se a te era tanto gradita, o Betico, la fica?
E' da castrare la testa: infatti benché tu sia un Gallo per l'inguine,
tuttavia non rispetti Cibele: con la bocca sei maschio.
82
Conviva quisquis Zoili potest esse,
Summemmianas cenet inter uxores
curtaque Ledae sobrius bibat testa:
hoc esse levius puriusque contendo.
Iacet occupato galbinatus in lecto
cubitisque trudit hinc et inde convivas
effultus ostro Sericisque pulvillis.
III. 82
Chi è capace di essere commensale di Zoilo
pranzi insieme alle sgualdrine del Summemmio,
e beva benché sobrio da un'anfora sbreccata di Leda:
sostengo che sarebbe cosa più sopportabile e più pulita.
Giace, vestito di verde-pallido, su un letto riservato a lui,
e con gomitate spinge di qua e di là i commensali
adagiato su tappeti di porpora e cuscini di seta.
Stat exoletus suggeritque ructanti
pinnas rubentes cuspidesque lentisci,
et aestuanti tenue ventilat frigus
supina prasino concubina flabello,
fugatque muscas myrtea puer virga.
Percurrit agili corpus arte tractatrix
manumque doctam spargit omnibus membris;
digiti crepantis signa novit eunuchus
et delicatae sciscitator urinae
domini bibentis ebrium regit penem.
Gli sta vicino un giovanottone che porge a lui che rutta
penne rosse e pezzetti di lentischio,
mentre una concubina sdraiata sulla schiena fa un leggero
venticello con un ventaglio color verde a lui accaldato,
uno schiavetto caccia le mosche con un ramoscello di mirto.
Una massaggiatrice gli tratta il corpo con la sua arte leggera
e stende la mano esperta sopra tutte le membra; 
un eunuco sta attento ai segnali delle schioccanti dita
e da ispettore della capricciosa urina
guida il pene ubriaco del padrone che beve.
At ipse retro flexus ad pedum turbam
inter catellas anserum exta lambentis
partitur apri glandulas palaestritis
et concubino turturum natis donat;
Ligurumque nobis saxa cum ministrentur
vel cocta fumis musta Massilitanis,
Opimianum morionibus nectar
crystallinisque murrinisque propinat;
Lui intanto, voltato all'indietro verso la folla di piedi accalcati
tra le cagnette che leccano interiora di oche,
distribuisce agli atleti animelle di cinghiale
e dà cosce di tortore al concubino.
E mentre a noi vengono serviti vini dei sassi liguri
o il mosto cotto nelle cucine di Marsiglia,
offre ai suoi buffoni nettare Opimiano
in coppe di cristallo e di mirra.
et Cosmianis ipse fusus ampullis
non erubescit murice aureo nobis
dividere moechae pauperis capillare.
Septunce multo deinde perditus stertit:
nos accubamus et silentium rhonchis
praestare iussi nutibus propinamus.
Hoc Malchionis patimur inprobi fastus,
nec vindicari, Rufe, possumus: fellat.
E tutto scuro dei vasetti di Cosmo
non si vergogna di distribuire a noi dentro una conchiglia d'oro
unguento per capelli da prostituta povera.
Poi, ubriaco per le numerose coppe di sette ciati, russa:
noi stiamo a tavola, e ricevuto l'ordine di rispettare
col silenzio il suo russare, brindiamo con cenni del capo.
Questa insolenza patiamo da questo sciagurato Malchione,
né possiamo vendicarci, Rufo: lui tira pompini. [15]
85
Quis tibi persuasit naris abscidere moecho?
Non hac peccatum est parte, marite, tibi.
Stulte, quid egisti? Nihil hic tibi perdidit uxor,
cum sit salva tui mentula Deiphobi.
III. 85
Chi ti ha consigliato di tagliare il naso all'adultero?
Non è stato il naso a offenderti, o marito.
Che hai fatto, stolto? Così nulla ha perduto tua moglie,
dal momento che è salvo il cazzo del tuo Deifobo.
87
Narrat te rumor, Chione, numquam esse fututam
atque nihil cunno purius esse tuo.
Tecta tamen non hac, qua debes, parte lavaris:
si pudor est, transfer subligar in faciem.
III. 87
Corre voce, Chione, che tu non sei stata mai scopata 
da alcuno, e che non c'è cosa più pura della tua fica.
Tuttavia fai il bagno senza coprire quella parte che dovresti:
se hai pudore, sposta la fascia sul viso.
88
Sunt gemini fratres, diversa sed inguina lingunt:
dicite, dissimiles sunt magis an similes?
III. 88
Sono fratelli gemelli, ma leccano inguini diversi:
dite voi, sono più dissimili o simili?
            92
Ut patiar moechum rogat uxor, Galle, sed unum.
Huic ego non oculos eruo, Galle, duos?
III. 92
Mia moglie mi supplica di consentirle un amante, Gallo, solo uno.
A costui io non cavo due occhi, Gallo, due?
95
Numquam dicis have sed reddis, Naevole, semper,
quod prior et corvus dicere saepe solet.
Cur hoc expectas a me, rogo, Naevole, dicas:
nam, puto, nec melior, Naevole, nec prior es.
Praemia laudato tribuit mihi Caesar uterque
natorumque dedit iura paterna trium.
Ore legor multo notumque per oppida nomen
non expectato dat mihi fama rogo.
III. 95
Mai mi dici "ave", ma lo ricambi sempre, Nevolo:
eppure perfino il corvo spesso suole salutare per primo.
Dimmi, ti prego, Nevolo, perché lo aspetti da me:
perché tu, Nevolo, penso, non sei né migliore né più insigne di me.
Ambedue gli imperatori mi hanno assegnato premi
dopo avermi lodato e mi hanno concesso il diritto dei tre figli.
Sono letto da molti e la fama ha reso glorioso il mio nome
per le città, senza aspettare il mio rogo.
Est et in hoc aliquid: vidit me Roma tribunum
et sedeo qua te suscitat Oceanus.
Quot mihi Caesareo facti sunt munere cives,
nec famulos totidem suspicor esse tibi.
Sed pedicaris, sed pulchre, Naevole, ceves. [16]
Iam iam tu prior es, Naevole, vincis: have.
Ho un vantaggio anche in ciò: che Roma mi ha visto tribuno
e siedo in posti da dove Oceano ti fa alzare.
Non suppongo che tu abbia altrettanti schiavi di quanti
sono diventati cittadini romani per favore di Cesare a me.
Ma tu ti fai inculare, ma tu sculetti con grazia, Nevolo.
Ora ora sei tu il primo, Nevolo, tu vinci: salve.
96
Lingis, non futuis meam puellam
et garris [17] quasi moechus et fututor.
Si te prendero, Gargili, tacebis.
III. 96
Lecchi, ma non la fotti, la mia ragazza,
blateri quasi tu fossi un amante e uno scopatore.
Se t'afferro, Gargilio, tacerai. [18]





EPIGRAMMI da Libro 4  (n. 7)

VII.
Cur, here quod dederas, hodie, puer Hylle, negasti,
durus tam subito qui modo mitis eras?
Sed iam causaris barbamque annosque pilosque.
O nox quam longa es quae facis una senem!
Quid nos derides? Here qui puer, Hylle, fuisti,
dic nobis, hodie qua ratione vir es?
IV. 7
Perché ciò che ieri m'avevi dato, Illo ragazzo mio, oggi mi hai
negato, a un tratto così inflessibile, tu che eri solo benevolo?
Ma adesso porti a giustificazione la barba, l'età, i peli.
O notte, quanto sei lunga, che d'un colpo lo rendi vecchio?
Perché mi deridi? Tu che ieri sei stato ragazzo, Illo,
dicci: per quale motivo oggi sei uomo?
XVII.
Facere in Lyciscam, Paule, me iubes versus,
quibus illa lectis rubeat et sit irata.
O Paule, malus es: irrumare vis solus.
IV. 17
O Paolo, vuoi che io scriva dei versi contro Licisca,
per la lettura dei quali lei arrossisca e si adiri.
Paolo, sei maligno: tu vuoi soltanto metterglielo in bocca.
XLII.
Si quis forte mihi possit praestare roganti,
audi, quem puerum, Flacce, rogare velim.
Niliacis primum puer hic nascatur in oris:
nequitias tellus scit dare nulla magis.
Sit nive candidior: namque in mareotide fusca
pulchrior est quanto rarior iste color.
Lumina sideribus certent mollesque flagellent
colla comae: tortas non amo, Flacce, comas.
Frons brevis atque modus leviter sit naribus uncis,
Paestanis rubeant aemula labra rosis.
IV. 42
Se mai ci fosse qualcuno capace di esaudirmi una proposta, ascolta, Flacco, quale ragazzo vorrei chiedergli.
Per prima cosa egli dovrebbe nascere sulle rive del Nilo:
da nessun'altra terra nascono creature più maliziose.
Dovrebbe essere più bianco della neve: nella livida palude alessandrina è un colore tanto più bello quanto più raro.
Gli occhi dovrebbero gareggiare con le stelle, le chiome frustare morbide il collo: non amo, Flacco, i capelli ricci.
Stretta la fronte, il naso appena all'insù,
le labbra umide delle rose rosse di Paestum.
Saepe et nolentem cogat nolitque volentem;
liberior domino saepe sit ille suo;
et timeat pueros, excludat saepe puellas:
vir reliquis, uni sit puer ille mihi.
"Iam scio, nec fallis: nam me quoque iudice verum est.
Talis erat" dices "noster Amazonicus".
Che spesso mi costringa quando non voglio e, quando voglio io, che non voglia lui; che spesso sia più sfrontato del suo padrone;
che abbia paura dei ragazzi e spesso scacci le ragazze: 
uomo per tutti gli altri, solo per me sia ragazzo.
«Ora capisco, non ti sbagli, perché è vero anche a mio parere.
Uguale era», dirai, «il mio Amazzonico».
                                                                               
XLIII
Non dixi, Coracine, te cinaedum: [19]
non sum tam temerarius nec audax
nec mendacia qui loquar libenter.
Si dixi, Coracine, te cinaedum,
iratam mihi Pontiae lagonam,
iratum calicem mihi Metili:
iuro per Syrios tibi tumores,
iuro per Berecyntios furores.
Quid dixi tamen? Hoc leve et pusillum,
quod notum est, quod et ipse non negabis:
dixi te, Coracine, cunnilingum.
IV. 43
Non ho detto, Coracino, che tu sei cinedo:
non sono così sfrontato né così sboccato,
né uno che dica volentieri menzogne.
Se ho detto, Coracino, che tu sei cinedo,
a me la furente bottiglia di Ponzia,
a me il furente bicchiere di Metilo:
lo giuro sui Siriani tumori,  
lo giuro per i frigi furori.
Che ho detto allora? Cosa modesta e da nulla, 
che è nota, che nemmeno tu negherai:
ho detto che tu, Coracino, sei uno che lecca la fica.
XLVIII.
Percidi gaudes, percisus, Papyle, ploras:
cur, quae vis fieri, Papyle, facta doles?
Paenitet obscenae pruriginis? An magis illud
fles, quod percidi, Papyle, desieris?
[20] 

IV. 48

Godi nel farti perforare, Papilo, ma piangi una volta perforato.
Perché ti lamenti, Papilo, che ti sia fatto quanto vuoi?
Ti penti dei tuoi osceni pruriti? O piuttosto piangi
perché hai già finito di essere perforato?
L.
Quid me, Thai, senem subinde dicis?
Nemo est, Thai, senex ad irrumandum.

IV. 50

Perché, Taide, mi dici continuamente vecchio?
Nessuno, Taide, è vecchio per metterlo in bocca.
LXXXIV.
Non est in populo nec urbe tota
a se Thaida qui probet fututam,
cum multi cupiant rogentque multi.
Tam casta est, rogo, Thais? Immo fellat.
IV. 84
Non c'è tra le persone e in tutta l'urbe
uno che possa provare di avere fottuto Taide,
anche se molti lo desiderano e molti glielo chiedono.
Tanto casta, chiedo, è Taide? Nient'affatto: spompina.


EPIGRAMMI da Libro 5  (n. 3)

XLVIII.
Quid non cogit amor? Secuit nolente capillos
Encolpos domino, non prohibente tamen.
Permisit flevitque Pudens: sic cessit habenis
audaci questus de Phaethonte pater:
talis raptus Hylas, talis deprensus Achilles
deposuit gaudens, matre dolente, comas.
Sed tu ne propera - brevibus ne crede capillis -
tardaque pro tanto munere, barba, veni.

V. 48

A cosa non spinge l'amore? Encolpo si è tagliato i capelli
contro il volere del suo signore, che però non glielo ha proibito.
Pudente glielo ha permesso e pianse: così gli cedette le redini,
pur deplorando l'audace Fetonte, suo padre;
così Ila rapito, così Achille sorpreso
rinunciò lietamente, con dolore della madre, alle chiome.
Ma tu non avere fretta, non t'illudere per i corti capelli:
e tu, barba, vieni tardi, per un dono così grande.
LVI.
Cui tradas, Lupe, filium magistro,
quaeris sollicitus diu rogasque.
Omnes grammaticosque rhetorasque
devites moneo: nihil sit illi
cum libris Ciceronis aut Maronis;
famae Tutilium suae relinquat;
si versum facit, abdices poetam.
Artes discere volt pecuniosas?
Fac discat citharoedus aut choraules;
si duri puer ingeni videtur,
praeconem facias vel architectum.

V. 56

Lupo, di continuo mi chiedi e mi preghi
preoccupato a chi tu debba affidare tuo figlio.
Tutti i grammatici e i retori
ti consiglio di evitare: non abbia nulla a che fare
coi libri di Cicerone e di Virgilio;
lasci Tutilio alla sua fama;
se compone dei versi, diseredita il poeta.
Vuole apprendere mestieri lucrosi?
Fagli imparare l'arte del suonatore di cetra o di flauto; 
se ti sembra un ragazzo con la testa dura,
fa di lui un banditore o un architetto.
LXXXIII.
Insequeris, fugio; fugis, insequor; haec mihi mens est:
velle tuum nolo, Dindyme, nolle volo.

V. 83

Mi cerchi, io ti fuggo; mi fuggi, io ti cerco. Questa indole ho:
non voglio ciò che vuoi tu, Dindimo, voglio ciò che tu non vuoi.




EPIGRAMMI da Libro 6  (n. 16)

VII.
Iulia lex populis ex quo, Faustine, renata est
atque intrare domos iussa Pudicitia est,
aut minus aut certe non plus tricesima lux
est, et nubit decimo iam Telesilla viro.
Quae nubit totiens, non nubit: adultera lege est.
Offendor moecha simpliciore minus.

VI. 7

Da quando è stata ripristinata la legge Julia [21], Faustino,
e l'imposizione della castità è entrata nelle case,
son passati trenta giorni o forse meno,
e Telesilla già sposa il suo decimo marito.
Chi si sposa tutte queste volte, non si sposa: è adultera per legge.
Mi disgusta di meno una semplice puttana.
XVI.
Tu qui pene viros terres et falce cinaedos,
iugera sepositi pauca tuere soli.
Sic tua non intrent vetuli pomaria fures,
sed puer et longis pulchra puella comis.

VI. 16

Tu che atterrisci col pene gli uomini e col falcetto i cinedi,
custodisci i pochi iugeri di questo podere fuori mano.
Così, non entrino nei tuoi frutteti vecchi ladri,
ma un fanciullo e una bella fanciulla dalle lunghe chiome.
XXII.
Quod nubis, Proculina, concubino
et, moechum modo, nunc facis maritum,
ne lex Iulia te notare possit:
non nubis, Proculina, sed fateris.

VI. 22

Tu sposi, o Proculina, il tuo concubino 
e fai un marito di quello che dianzi era un amante,
per non incorrere nei rigori della legge Giulia.
Tu non sposi, o Proculina, ma confessi la tua colpa.
XXIII.
Stare iubes semper nostrum tibi, Lesbia, penem:
crede mihi, non est mentula quod digitus.
Tu licet et manibus blandis et vocibus instes,
te contra facies imperiosa tua est.

VI. 23

Tu, o Lesbia, vuoi che il mio pene stia sempre diritto per te.
Ma il cazzo, credimi, non è quello che è un dito.
Per quanto tu gli stia sopra con le mani e con dolci paroline,
il tuo viso imperioso è contro di te.
XXVI.
Periclitatur capite Sotades noster.
Reum putatis esse Sotaden? Non est.
Arrigere desit posse Sotades: lingit.
VI. 26
La testa del nostro Sodate è in pericolo.
Credete forse che Sodate sia un reo? Non lo è.
Sodate non riesce più a drizzarla: lecca.
XXXI.
Uxorem, Charideme, tuam scis ipse sinisque
a medico futui: vis sine febre mori.
VI. 31
Tu sai bene, Caridemo, che tua moglie se la fotte il medico,
e lo permetti: vuoi morire senza febbre.
XXXIII.
Nil miserabilius, Matho, pedicone Sabello
vidisti, quo nil laetius ante fuit.
Furta, fugae, mortes servorum, incendia, luctus
adfligunt hominem, iam miser et futuit.
VI. 33
Nessuno più infelice, o Matone, di Sabello il pederasta
tu hai mai visto, lui di cui prima nessuno era più lieto.
Furti, fughe e morti di schiavi, incendi, lutti
lo affliggono: ormai è in miseria e può solo fottere.[22]
XXXIV.
Basia da nobis, Diadumene, pressa. «Quot?» inquis.
Oceani fluctus me numerare iubes
et maris Aegaei sparsas per litora conchas
et quae Cecropio monte vagantur apes,
quaeque sonant pleno vocesque manusque theatro,
cum populus subiti Caesaris ora videt.
Nolo quot arguto dedit exorata Catullo
Lesbia: pauca cupit qui numerare potest.
VI. 34
Dammi forti baci, o Diadumeno. «Quanti?» mi dici.
Tu vuoi che io conti le onde dell'oceano,
le conchiglie sparse sui lidi del mare Egeo,
le api che volano sul monte Cecropio,
le acclamazioni e gli applausi che risuonano nel pieno teatro,
quando il popolo vede improvvisamente il volto dell'imperatore.
Non voglio tutti i baci che Lesbia diede all'arguto Catullo,
da lui pregata: chiede pochi baci chi può contarli.
XXXVI.
Mentula tam magna est, quantus tibi, Papyle, nasus,
ut possis, quotiens arrigis, olfacere.
VI. 36
Il tuo cazzo, o Papilo, è tanto lungo quanto il tuo naso;
cosicché tu puoi odorarlo, tutte le volte che lo drizzi.
XXXVII.
Secti podicis usque ad umbilicum
nullas relliquias habet Charinus,
et prurit tamen usque ad umbilicum.
O quanta scabie miser laborat!
Culum non habet, est tamen cinaedus.
VI. 37
Carino non ha più alcuna traccia
del suo sedere aperto fino all'ombelico;
e tuttavia sente prurito fino all'ombelico.
Oh, da quale prurito è affetto l'infelice! 
Non ha culo, eppure è un cinedo.
XXXIX.
Pater ex Marulla, Cinna, factus es septem
non liberorum: namque nec tuus quisquam
nec est amici filiusve vicini,
sed in grabatis tegetibusque concepti
materna produnt capitibus suis furta.
Hic, qui retorto crine Maurus incedit,
subolem fatetur esse se coci Santrae.
At ille sima nare, turgidis labris
ipsa est imago Pannychi palaestritae.
Pistoris esse tertium quis ignorat,
quicumque lippum novit et videt Damam?
VI. 39
Marulla ti ha fatto padre, Cinna, di sette figli,
che non sono però liberi: nessuno infatti è figlio tuo 
o di un tuo amico o di un tuo vicino;
concepiti su miseri lettucci e su stuoie,
mostrano sul viso l'infedeltà materna.
Questo Mauro dai capelli ricciuti, che cammina,
mostra apertamente di essere figlio del cuoco Santra.
Invece quello col naso camuso e le labbra turgide
è proprio il ritratto dell'atleta Pannico.
Chi conosce e guarda il cisposo fornaio Dama,
non può ignorare che il terzo è suo figlio.
Quartus cinaeda fronte, candido voltu ex concubino
natus est tibi Lygdo: percide,
si vis, filium: nefas non est.
Hunc vero acuto capite et auribus longis,
quae sic moventur ut solent asellorum,
quis morionis filium negat Cyrtae?
Duae sorores, illa nigra et haec rufa,
Croti choraulae vilicique sunt Carpi.
Iam Niobidarum grex tibi foret plenus,      
si spado Coresus Dindymusque non esset.
Il quarto dallo sguardo sfacciato e dal viso pallido
ti è nato dall'amasio Ligdo;
trafiggi pure tuo figlio: non è un delitto.
Quest'altro con la testa aguzza e le orecchie lunghe,
che si muovono proprio come quelle degli asini,
chi potrebbe negare che sia figlio del buffone Cirta?
Le due sorelle, una nera e l'altra rossa,
sono figlie del flautista Croto e del fattore Carpo.
Tu avresti già la prole dei Niobidi al completo,
se Coreso e Dindimo non fossero eunuchi.
LVI.
Quod tibi crura rigent saetis et pectora villis,
verba putas famae te, Charideme, dare?
Extirpa, mihi crede, pilos de corpore toto
teque pilare tuas testificare natis.
«Quae ratio est?» inquis. Scis multos dicere multa:
fac pedicari te, Charideme, putent.
VI. 56
Poiché hai gambe irte di peli e petto villoso,
tu pensi di ingannare i pettegolezzi su di te, Caridemo?
Strappa via, credimi, i peli dall'intero corpo
dichiara a tutti che tu ti depili le natiche.
«Qual è il motivo?» chiedi. Sai che molti chiacchierano molto:
fa che credano che tu lo prendi in culo, Caridemo. [23]
LXVII.
Cur tantum eunuchos habeat tua Caelia quaeris,
Pannyche? Volt futui Caelia nec parere.
VI. 67
Mi chiedi, perché la tua Celia tiene con sé solo eunuchi,
Panncio? Vuole essere fottuta Celia, e non partorire.
LXXI.
Edere lascivos ad Baetica crusmata gestus
et Gaditanis ludere docta modis,
tendere quae tremulum Pelian Hecubaeque maritum
posset ad Hectoreos sollicitare rogos,
urit et excruciat dominum Telethusa priorem:
vendidit ancillam, nunc redimit dominam.
VI. 71
Teletusa, abilissima nel fare mosse lascive al suono
delle nacchere betichee nel danzare ai ritmi di Cadice,
colei che sarebbe capace di eccitare il tremante Pelia 
e di accendere di desiderio il marito di Ecuba 
presso il rogo di Ettore, fa consumare d'amore il precedente padrone.
L'ha venduta schiava, ora la ricompra padrona.
LXXXI.
Iratus tamquam populo, Charideme, lavaris:
inguina sic toto subluis in solio.
Nec caput hic vellem sic te, Charideme, lavare.
Et caput, ecce, lavas: inguina malo laves.
VI. 81
Caridemo, tu fai il bagno come se fossi in collera col popolo:
ti lavi l'inguine per tutta la vasca.
Io non vorrei, o Caridemo, che tu ti lavassi così neppure la testa.
Ed ecco che ti lavi la testa: preferisco che tu ti lavi gli inguini.
XCI.
Sancta ducis summi prohibet censura vetatque
moechari. Gaude, Zoile, non futuis.
VI. 91
Il sacro editto dell'imperatore vieta nel modo più assoluto
l'adulterio. Rallegrati, Zoilo, tu non fotti.








EPIGRAMMI da Libro 7  (n. 22)

X.
Pedicatur Eros, fellat Linus: Ole, quid ad te
de cute quid faciant ille vel ille sua?
Centenis futuit Matho milibus: Ole, quid ad te?
Non tu propterea, sed Matho pauper erit.
In lucem cenat Sertorius: Ole, quid ad te,
cum liceat tota stertere nocte tibi?
Septingenta Tito debet Lupus: Ole, quid ad te?
Assem ne dederis crediderisve Lupo.
VII. 10
Eros si fa inculare, Lino tira pompini: che t'importa, Olo,
di ciò che fanno della propria pelle questo e quello?
Matone per fottere spende centomila sesterzi: che t'importa, Olo?
Matone diverrà povero per questo, non tu.
Sertorio prolunga le sue cene fino all'alba: che t'importa, Olo,
dal momento che tu puoi russare l'intera notte?
Lupo deve settecentomila sesterzi a Tito: che t'importa, Olo?
Non dare e non prestare un asse a Lupo.
Illud dissimulas, ad te quod pertinet, Ole,
quodque magis curae convenit esse tuae.
Pro togula debes: hoc ad te pertinet, Ole.
Quadrantem1 nemo iam tibi credit: et hoc.
Uxor moecha tibi est: hoc ad te perinet, Ole.
Poscit iam dotem filia grandis: et hoc.
Dicere quindecies poteram, quod pertinet ad te:      
sed quid agas ad me pertinet, Ole, nihil.
Tu fai finta d'ignorare, Olo, ciò che ti riguarda,
e che ti dovrebbe stare maggiormente a cuore.
Devi ancora pagare la toga: questo riguarda te, Olo.
Nessuno ti fa credito di un quadrante: anche questo riguarda te.
Tua moglie è adultera: questo riguarda te, Olo. 
Tua figlia già grande chiede ormai la dote: anche ciò ti riguarda.
Potrei elencare quindici cose che ti riguardano:
ma che cosa tu faccia, non m'interessa proprio nulla, Olo.
XIV.
Accidit infandum nostrae scelus, Aule, puellae;
amisit lusus deliciasque suas:
non quales teneri ploravit amica Catulli
Lesbia, nequitiis1 passeris orba sui,
vel Stellae cantata meo quas flevit Ianthis,
cuius in Elysio nigra columba volat:
lux mea non capitur nugis neque moribus istis,
nec dominae pectus talia damna movent:
bis senos puerum numerantem perdidit annos,
mentula cui nondum sesquipedalis erat.      
VII. 14
È capitata una tremenda disgrazia, o Aulo, alla mia ragazza.
Ha perduto il suo spasso e il suo godimento;
ma non quello che pianse Lesbia, l'amica del delicato Catullo,
privata delle prepotenze del suo passero,
né quello che pianse Iantide, cantata dal mio Stella,
la cui colomba vola ora avvolta di caligine nei regni Elisii.
Il mio amore è immune da tali sciocchezze e da tali usanze;
il cuore della mia signora non si lascia vincere da tali disgrazie.
Ha perduto uno schiavo che contava dodici anni,
il cui cazzo non era ancora enorme.
                                                                               
XV.
Quis puer hic nitidis absistit Ianthidos undis?
Effugit dominam Naida numquid Hylas?
O bene quod silva colitur Tirynthius ista
et quod amatrices tam prope servat aquas!
Securus licet hos fontes, Argynne, ministres:
nil facient Nymphae: ne velit ipse, cave.
VII. 15
Chi è questo fanciullo che fugge dalle limpide acque di Iantide?
È forse Ila che fugge la ninfa signora di queste acque?
È una fortuna che in questo boschetto si trovi Ercole,
che vigila così da vicino sulle acque vogliose di amare!
Tu puoi servirci, o Arginno, queste acque senza alcun timore:
le ninfe non ti toccheranno; guardati piuttosto dal dio.
XVIII.
Cum tibi sit facies, de qua nec femina possit
dicere, cum corpus nulla litura notet,
cur te tam rarus cupiat repetatque fututor,
miraris? Vitium est non leve, Galla, tibi:
accessi quotiens ad opus mixtisque movemur
inguinibus, cunnus non tacet, ipsa taces.
Di facerent ut tu loquereris et ille taceret:
offendor cunni garrulitate tui.
Pedere te mallem: namque hoc nec inutile dicit
Symmachus et risum res movet ista simul.
VII. 18
Ti meravigli se, pur avendo tu un viso che neppure una donna
potrebbe criticare e un corpo esente da ogni difetto, un così
esiguo numero di uomini ti desideri e ritorni al tuo amplesso?
Hai un grosso difetto, o Galla: tutte le volte che io mi accingo all'impresa e con gli inguini uniti ci agitiamo,
tu taci, ma non tace la tua fica.
Volessero gli dei che tu parlassi e quella tacesse:
la loquacità della tua fica mi dà fastidio.
Preferirei che tu scorreggiassi: infatti è una cosa che fa bene,
a detta di Simmaco, e nello stesso tempo suscita il riso.
Quis ridere potest fatui poppysmata cunni?
Cum sonat hic, cui non mentula mensque cadit?
Dic aliquid saltem clamosoque obstrepe cunno,
et, si adeo muta es, disce vel inde loqui.
Ma chi può ridere del borbottio di una stupida fica?
Quando questa rumoreggia, a chi non viene meno cazzo e voglia?
Di' almeno qualcosa e copri lo schiamazzo della tua fica:
e, se sei proprio muta, impara almeno da qui a parlare.
XXIX.
Thestyle, Victoris tormentum dulce Voconi,
quo nemo est toto notior orbe puer,
sic etiam positis formonsus amere capillis
et placeat vati nulla puella tuo:
paulisper domini doctos sepone libellos,      
carmina Victori dum lego parva tuo.
Et Maecenati, Maro cum cantaret Alexin,
nota tamen Marsi fusca Melaenis erat.
VII. 29
O Testilo, dolce tormento di Vittore Voconio,
di cui non c'è in tutto il mondo un fanciullo più conosciuto, 
possa tu essere amato per la tua bellezza, anche quando ti sarai
tagliati i capelli, e nessuna fanciulla possa piacere al tuo poeta:
metti da parte per un poco i dotti libri del padrone,
mentr'io leggo al tuo Vittore questi carmi senza pretese.
Anche a Mecenate era nota la bruna Melenide di Marso,
quando Virgilio cantava Alessi.
XXX.
Das Parthis, das Germanis, das, Caelia, Dacis,
nec Cilicum spernis Cappadocumque toros;
et tibi de Pharia Memphiticus urbe fututor
navigat, a rubris et niger Indus aquis:
nec recutitorum fugis inguina Iudaeorum,
nec te Sarmatico transit Alanus equo.
Qua ratione facis, cum sis Romana puella,
quod Romana tibi mentula nulla placet?
VII. 30
O Celia, tu ti concedi ai Parti, ai Germani, ai Daci;
non disprezzi i letti dei Cilici e dei Cappadoci;
per godere il tuo amplesso l'uomo di Menfi naviga
dalla città di Faro e il nero Indiano dal mar Rosso;
non hai a sdegno i membri dei circoncisi Giudei
e l'Alano sul suo cavallo sarmatico si ferma da te.
Per quale motivo, pur essendo una ragazza romana,
non ti senti attratta da nessun cazzo romano?
XXXV.
Inguina succinctus nigra tibi servos aluta
stat, quotiens calidis tota foveris aquis.
Sed meus, ut de me taceam, Laecania, servos
Iudaeum nulla sub cute pondus habet,
sed nudi tecum iuvenesque senesque lavantur.
An sola est servi mentula vera tui?
Ecquid femineos sequeris, matrona, recessus,
secretusque tua, cunne, lavaris aqua?
VII. 35
Ogni qualvolta il tuo corpo è tutto accarezzato dalla calda acqua,
ti sta vicino uno schiavo con l'arnese coperto da un nero cuoio.
Ma il mio schiavo, per non parlare di me stesso, o Lecania,
non ha nessuna pelle sul suo arnese degno di un giudeo:
fanno il bagno nudi insieme con te giovani e vecchi.
Credi forse che solo il tuo schiavo ha un vero cazzo? 
Sei forse, o matrona, in un luogo appartato e riservato alle donne, 
e tu, fica, ti lavi forse in segreto in un'acqua tutta tua?
XLIII.
Primum est ut praestes, si quid te, Cinna, rogabo;
illud deinde sequens, ut cito, Cinna, neges.
Diligo praestantem; non odi, Cinna, negantem:
sed tu nec praestas nec cito, Cinna, negas.
VII. 43
Innanzi tutto vorrei che tu mi concedessi, Cinna, ciò che ti chiedo;
in secondo luogo che tu, Cinna, me lo negassi subito.
Amo chi si concede; non odio, Cinna, chi si nega.
Tu però né ti concedi, né subito, Cinna, ti neghi.
L.
Fons dominae, regina loci quo gaudet Ianthis,
gloria conspicuae deliciumque domus,
cum tua tot niveis ornetur ripa ministris
et Ganymedeo luceat unda choro:
quid facit Alcides silva sacratus in ista?
Tam vicina tibi cur tenet antra deus?
Numquid Nympharum notos observat amores,
tam multi pariter ne rapiantur Hylae?
VII. 50
O fonte della padrona, di cui Iantide, signora di questo luogo, tanto si compiace, vanto e delizia di una ricca casa,
poiché la tua sponda è adorna di tanti candidi servi
e l'onda rifulge di una schiera di Ganimedi, che cosa fa Ercole,
a cui è dedicata una statua nel boschetto qui vicino?
Perché il dio occupa una grotta così vicino a te?
Forse vigila sui noti amori delle Ninfe, affinché non vengano
ugualmente rapiti tanti fanciulli simili a Ila?
LV.
Nulli munera, Chreste, si remittis,
nec nobis dederis remiserisque:
credam te satis esse liberalem.
Sed si reddis Apicio Lupoque
et Gallo Titioque Caesioque,
linges non mihi -nam proba et pusilla est-,
sed quae de Solymis venit perustis
damnatam modo mentulam tributis.
VII. 55
Se tu, Cresto, non ricambiassi a nessuno i doni,
potresti anche non darli, né ricambiarli a me:
io ti potrei credere abbastanza generoso.
Ma se tu li ricambi ad Apicio, a Lupo,
a Gallo, a Tizio e a Cesio,
allora tu dovrai leccarlo non a me -infatti è onesto e piccolo-
ma a quello che è venuto dall'incendiata Gerusalemme,
condannato or è poco, al pagamento del tributo.
LVIII.
Iam sex aut septem nupsisti, Galla, cinaedis,
dum coma te nimium pexaque barba iuvat.
Deinde experta latus madidoque simillima loro
inguina nec lassa stare coacta manu,
deseris inbelles thalamos mollemque maritum,
rursus et in similes decidis usque toros.
Quaere aliquem Curios semper Fabiosque loquentem,
hirsutum et dura rusticitate trucem:
invenies: sed habet tristis quoque turba cinaedos:
difficile est vero nubere, Galla, viro.
VII. 58
Ormai, Galla, hai sposato sei o sette cinedi, follemente innamorata com'eri della loro chioma e della barba ben pettinata.
Poi, avendo provato le loro forze e i loro inguini del tutto simili
a corregge bagnate, che non si drizzavano neppure solleticati
a lungo dalla tua mano, abbandoni gl'imbelli letti e gl'impotenti mariti e incappi di nuovo sempre in simili matrimoni.
            Cercati un uomo che abbia sempre sulla bocca i Curii e i Fabii,
ispido e torvo nella sua fiera selvatichezza.
Lo troverai; però anche questa schiera severa ha i suoi cinedi:
è difficile, o Galla, sposare un vero uomo.
LXII.
Reclusis foribus grandes percidis, Amille,
et te deprendi, cum facis ista, cupis,
ne quid liberti narrent servique paterni
et niger obliqua garrulitate cliens.
Non pedicari se qui testatur, Amille,
illud saepe facit quod sine teste facit.
VII. 62
A porte aperte ragazzoni tu infilzi, Amillo,
e desideri essere visto mentre fai queste cose,
a che liberti, schiavi ereditati dal padre e maligni clienti
dalla lingua pungente non rivelino qualcosa.
Chi vuole dimostrare con testimoni che non si fa inculare,
spesso, Amillo, fa ciò che fa senza testimoni.
LXVII.
Pedicat pueros tribas Philaenis
et tentigine saevior mariti
undenas dolat in die puellas.
Harpasto quoque subligata ludit,
et flavescit haphe, gravesque draucis
halteras facili rotat lacerto,
et putri lutulenta de palaestra
uncti verbere vapulat magistri:
nec cenat prius aut recumbit ante,
quam septem vomuit meros deunces;
ad quos fas sibi tunc putat redire,
cum coloephia sedecim comedit.
VII. 67
Filenide la lesbica incula i ragazzini 
e, più accesa di libidine di un uomo,
si lavora undici ragazze al giorno.
Coperta di sole mutandine gioca anche al pallone
e si spalma di bionda polvere, fa girare con disinvoltura
col suo braccio i manubri pesanti per degli atleti,
e uscendo sporca dall'umida palestra
si offre ai colpi del maestro di ginnastica unto d'olio.
Non cena, né si sdraia sul triclinare prima
di avere vomitato sette coppe di schietto vino;
si dedica di nuovo alla stessa quantità di vino
dopo aver mangiato sedici polpette di carne.
Post haec omnia cum libidinatur,
non fellat – putat hoc parum virile –,
sed plane medias vorat puellas.      
Di mentem tibi dent tuam, Philaeni,
cunnum lingere quae putas virile.
Dopo tutto questo, invasa dalla libidine, 
non spompina, – lo ritiene poco virile,
ma divora avidamente le ragazze fra le cosce.
Gli dèi ti conservino la tua inclinazione, Filenide,
tu che ritieni una cosa da uomini leccare la fica.
LXVIII.
Commendare meas, Instani Rufe, Camenas
parce precor socero: seria forsan amat.
Quod si lascivos admittit et ille libellos,
haec ego vel Curio Fabricioque legam.
VII. 68
Èvita di raccomandare, Instanio Rufo, i miei carmi
a tuo suocero, ti prego: egli forse ama i versi seri.
Se anch'egli approva i miei lascivi libretti,
io li leggerò perfino a un Curio e a un Fabrizio.
LXX.
Ipsarum tribadum tribas, Philaeni,
recte, quam futuis, vocas amicam.
VII. 70
Tu che sei la più lesbica tra le lesbiche, Filenide,
a buon diritto chiami amica la donna con cui fotti.
LXXIV.
Cyllenes caelique decus, facunde minister,
aurea cui torto virga dracone viret;
sic tibi lascivi non desit copia furti,
sive cupis Paphien, seu Ganymede cales,
maternaeque sacris ornentur frondibus Idus,
et senior parca mole prematur avus:
hunc semper Norbana diem cum coniuge Carpo
laeta colat, primis quo coiere toris.
Hic pius antistes sophiae sua dona ministrat,
hic te ture vocat fidus et ipse Iovi.
VII. 74
O decoro di Cillene e del cielo, facondo araldo,
la cui aurea bacchetta verdeggia di un serpente attorcigliato, 
possa non mancarti mai l'occasione di un amore furtivo,
sia che tu desideri Venere, sia che tu arda per Ganimede.
Le Idi materne siano adorne di sacre fronde
e il vecchio avo sia gravato da un peso leggero:
Norbana festeggi sempre in letizia insieme allo sposo Carpo
questo giorno, in cui essi si unirono in matrimonio per la prima volta.
Carpo, pio pontefice, offre i suoi doni alla saggezza
e t'invoca con l'incenso, fedele anche lui a Giove.
LXXV.
Vis futui gratis, cum sis deformis anusque.
Res perridicula est: vis dare nec dare vis.
VII. 75
Vuoi essere scopata gratis, anche se sei deforme e vecchia.
La cosa è veramente ridicola: vuoi dare ma non vuoi dare.
LXXVII.
Exigis ut nostros donem tibi, Tucca, libellos.
Non faciam: nam vis vendere, non legere.
VII. 77
Tu pretendi, Tucca, che io ti faccia dono dei miei libretti.
Non ti farò questo dono: infatti tu vuoi venderli, non leggerli.
LXXX.
Quatenus Odrysios iam pax Romana triones
temperat et tetricae conticuere tubae,
hunc Marcellino poteris, Faustine, libellum
mittere: iam chartis, iam vacat ille iocis.
Sed si parva tui munuscula quaeris amici
commendare, ferat carmina nostra puer:
VII. 80
Poiché la pace Romana ormai governa la settentrionale Tracia
e le paurose trombe di guerra tacciono, tu potrai, Faustino,
mandare questo libretto a Marcellino:
ormai lui ha tempo libero da dedicare ai miei versi scherzosi.
Se poi tu vuoi accrescere il valore del piccolo dono
del tuo amico, sia un giovane schiavo a portare i miei carmi:
non qualis Geticae satiatus lacte iuvencae
Sarmatica rigido ludit in amne rota,
sed Mytilenaei roseus mangonis ephebus,
vel non caesus adhuc matre iubente Lacon.
At tibi captivo famulus mittetur ab Histro,
qui Tiburtinas pascere possit oves.
ma uno non simile a colui che saziato col latte di una giovenca
getica gioca con un cerchio sarmatico sul fiume gelato, 
ma un roseo efebo di un mercante di schiavi di Mitilene,
o un ragazzo spartano non ancora battuto per ordine della madre.
A te però sarà mandato dall'Istro sottomesso un famiglio
che sappia pascolare le tue pecore tiburtine.
LXXXII.
Menophili penem tam grandis fibula vestit,
ut sit comoedis omnibus una satis.
Hunc ego credideram – nam saepe lavamur in unum -
sollicitum voci parcere, Flacce, suae:
dum ludit media populo spectante palaestra,
delapsa est misero fibula: verpus erat.
VII. 82
Il pene di Menofilo è coperto da una cintura così larga
che da sola basterebbe per tutti gli attori comici.
Io credevo, Fiacco, - spesso infatti facciamo il bagno insieme - che egli si preoccupasse di difendere la sua voce.
Mentre faceva i suoi esercizi nel mezzo della palestra
sotto gli occhi della folla, cadde al misero la cintura: era circonciso!
XCI.
De nostro, facunde, tibi, Iuvenalis, agello
Saturnalicias mittimus, ecce, nuces.
Cetera lascivis donavit poma puellis
mentula custodis luxuriosa dei.
VII. 91
Ecco, facondo Giovenale, ti mando
per i Saturnali noci del mio campicello.
Gli altri frutti il cazzo libidinoso di Priapo
li ha donati alle lascive fanciulle.
                                                                               
XCV
Bruma est et riger horridus december,
audes tu tamen osculo nivali
omnes obvius hinc et hinc tenere
et totam, Line, basiare Romam.
Quid posses graviusque saeviusque
percussus facere atque verberatus?
Hoc me frigore basiet nec uxor,
blandis filia nec rudis labellis.
VII. 95
È inverno e l'ispido dicembre punge,
e tuttavia tu osi fermare coi tuoi baci ghiacciati
tutti quelli che incontri qua e là,
e baciare, Lino, tutta Roma.
Quale vendetta più dura e più crudele
potresti tu prenderti, se fossi stato battuto e frustato?
Con questo freddo non mi bacerebbe la moglie,
né la figlioletta con i suoi teneri labbruzzi.
Sed tu dulcior elegantiorque,
cuius livida naribus caninis
dependet glacies rigetque barba,
qualem forficibus metit supinis
tonsor Cinyphio [24] Cilix marito.
Centum occurrere malo cunnilingis,
et Gallum timeo minus recentem.
Quare si tibi sensus est pudorque,
hibernas, Line, basiationes,
in mensem rogo differas Aprilem.
Ma tu sei più gentile e raffinato,
con questo livido ghiaccio che ti pende
dalle narici di cane e con questa ruvida barba
simile a quella che il tosatore cilicio taglia
con le sue forbici volte all'insù a un caprone libico.
Preferisco imbattermi in cento leccatori di fica,
e temo meno un Gallo castrato da poco.
Perciò se hai buon senso e pudore,
rimanda, Lino, i baci invernali,
ti prego, al mese di aprile.






EPIGRAMMI da Libro 8   (n. 3)

17
Egi, Sexte, tuam pactus duo milia causam:
misisti nummos quod mihi mille quid est?
"Narrasti nihil" inquis "et a te perdita causa est."
Tanto plus debes, Sexte, quod erubui.
VIII. 17
Ho trattato, Sesto, la tua causa per l'onorario convenuto
di duemila sesterzi: perché me ne hai mandato mille?
«Non hai esposto i fatti», dirai, «e hai perduto la causa».
Tanto più mi devi, Sesto, perché ho avuto vergogna [di esporli].
44
Titulle, moneo, vive: semper hoc serum est;
sub paedagogo coeperis licet, serum est.
At tu, miser Titulle, nec senex vivis,
sed omne limen conteris salutator
et mane sudas urbis osculis udus,
foroque triplici sparsus ante equos omnis
aedemque Martis et colosson Augusti
curris per omnis tertiasque quintasque.
Rape, congere, aufer, posside: relinquendum est.
VIII. 44
Titullo, dammi retta, goditi la vita. Facciamo ciò sempre tardi:
è lecito iniziarlo sotto il pedagogo, ma è già tardi.
Ma tu, povero Titullo, neppure da vecchio ti godi la vita,
ma consumi tutte le soglie per porgere il tuo saluto
e fin dal mattino sei in sudore, umido dei baci di tutta Roma,
e corri senza una meta precisa per i tre Fori,
dalla terza alla quinta ora, davanti a tutte le statue equestri,
al tempio di Marte e al colosso di Augusto.
Afferra, ammucchia, arraffa, tieni stretto: dovrai lasciare tutto.
Superba densis area palleat nummis,
centum explicentur paginae Kalendarum,
iurabit heres te nihil reliquisse,
supraque plutcum te iacente uel saxum,
fartus papyro dum tibi torus crescit,
flentes superbus basiabit eunuchos;
tuoque tristis filius, velis nolis,
cum concubino nocte dormiet prima.
Il tuo ricco scrigno luccichi pure di molto denaro,
si volgano pure nelle calende cento pagine dei tuoi registri:
l'erede giurerà che tu non gli hai lasciato nulla,
e quando tu sarai disteso sulla bara o sul marmo,
mentre il rogo imbottito di papiro s'innalza,
egli pieno di boria bacerà gli eunuchi piangenti, 
e tuo figlio addolorato, che tu voglia o non voglia,
dormirà la prima notte col tuo concubino.
53 [54]
Formosissima quae fuere vel sunt,
sed vilissima quae fuere vel sunt,
o quam te fieri, Catulla, vellem
formosam minus aut magis pudicam!

VIII. 53 (54)

O tu, la più bella tra quante furono e sono,
ma anche la più volgare tra quante furono e sono,
oh quanto vorrei che tu, Catulla,
divenissi meno bella o più pudica!

                                                                               
63
Thestylon Aulus amat sed nec minus ardet Alexin,
forsitan et nostrum nunc Hyacinthon amat.
I nunc et dubita vates an diligat ipsos,
delicias vatum cum meus Aulus amet.

VIII. 63

Aulo ama Testilo e arde non meno per Alessi;
ora forse ama anche il nostro Giacinto.
Ecco, come puoi ora dubitare che il mio Aulo non ami i poeti,
dal momento che ama i favoriti dei poeti?







EPIGRAMMI da Libro 9  (n. 25)

II
Pauper amicitiae cum sis, Lupe, non es amicae
et queritur de te mentula sola nihil.
ilia siligineis pinguescit adultera cunnis,
convivam pascit nigra farina tuum.
incensura nives dominae Setina liquantur,
nos bibimus Corsi pulla venena cadi;
empta tibi nox est fundis non tota paternis,
non sua desertus rura sodalis arat;

IX. 2

Mentre sei povero per gli amici, Lupo, non lo sei per l'amica,
e solo il tuo cazzo non ha di che lamentarsi con te.
L'adultera ingrassa i fianchi con pani di farina a forma di fica,
il tuo commensale mangia pane di nera farina;
per la signora si filtrano vini di Sezze capaci di scaldare le nevi,
noi beviamo neri veleni di orci corsi.
Tu ti compri una notte d'amore, e non intera, con i poderi paterni,
il tuo amico, abbandonato, ara campi non suoi.
splendet Erythraeis perlucida moecha lapillis,
ducitur addictus, te futuente, cliens;
octo Syris suffulta datur lectica puellae,
nudum sandapilae pondus amicus erit.
I nunc et miseros, Cybele, praecide cinaedos:
haec erat, haec cultris mentula digna tuis.
L'adultera tutta brillante risplende di gemme eritree,
il tuo cliente, mentre tu fotti, è portato via schiavo per debiti.
Alla ragazza viene regalata una lettiga portata da otto Siri,
il tuo amico sarà il nudo peso di una misera bara.
Vieni ora, Cibele, ed evira gli sciagurati cinedi: 
questo era, questo cazzo, degno dei tuoi coltelli.
IV
Aureolis futui cum possit Galla duobus
et plus quam futui, si totidem addideris:
aureolos a te cur accipit, Aeschyle, denos?
non fellat tanti Galla. Quid ergo? Tacet.

IX. 4

Sebbene Galla si fa fottere per due monete d'oro,
e più che farsi fottere, se gliene aggiungi altrettante,
perché da te, Eschilo, lei riceve riceve dieci monete d'oro?
Non spompina a tanto prezzo Galla. Che allora? Tace.
VII (VIII)
Tamquam parva foret sexus iniuria nostri
foedandos populo prostituisse mares,
iam cunae lenonis erant, ut ab ubere raptus
sordida vagitu posceret aera puer:
inmatura dabant infandas corpora poenas.
Non tulit Ausonius talia monstra pater,
idem qui teneris nuper succurrit ephebis,
ne faceret steriles saeva libido viros.
Dilexere prius pueri iuvenesque senesque,
at nunc infantes te quoque, Caesar, amant.

IX. 7(8)

Come se fosse un'offesa da poco per il nostro sesso,
che maschi da infamare si prostituissero al popolo,
ormai le culle erano del lenone, a che il bimbo strappato
dal seno chiedesse coi suoi vagiti sporco denaro:
i corpi immaturi subivano tremende offese.
Non ha tollerato tali mostruosità il padre italico,
lo stesso che di recente è venuto in aiuto ai teneri adolescenti,
affinché la terribile libidine non rendesse sterili gli uomini.
Prima ti amavano fanciulli, adolescenti e vecchi;
ora ti amano, Cesare, anche i bimbi.
XXI
Artemidorus habet puerum, sed vendidit agrum;
agrum pro puero Calliodorus habet.
Dic uter ex istis melius rem gesserit, Aucte:
Artemidorus amat, Calliodorus arat.

IX. 21

Artemidoro ha uno schiavetto, ma ha venduto il campo.
Calliodoro ha il campo in cambio dello schiavetto.
Dimmi chi di questi due ha fatto il migliore affare, Aucto:
Artemidoro ama, Calliodoro ara.
XXV
Dantem vina tuum quotiens aspeximus Hyllum,
lumine nos, Afer, turbidiore notas.
Quod, rogo, quod scelus est mollem spectare ministrum?
aspicimus solem sidera, templa, deos.
avertam vultus, tamquam mihi pocula Gorgon
porrigat atque oculos oraque nostra petat?
trux erat Alcides, et Hylan spectare licebat;
ludere Mercurio cum Ganymede licet.
Si non vis teneros spectet conviva ministros,
Phineas invites, Afer, et Oedipodas.

IX. 25

Ogni volta che guardiamo il tuo Illo che serve il vino,
Afro, tu ci biasimi con occhi torvi.
Qual delitto è, mi chiedo, quale, guardare il delicato coppiere?
Guardiamo il sole, le stelle, i templi, gli dèi.
Dovrei distogliere il viso, come se la Gorgone mi porgesse
le coppe e cercasse gli occhi e i visi nostri?
Ercole era terribile, ma permetteva di guardare Ila;
a Mercurio è lecito giocare con Ganimede.
Se non vuoi che i commensali guardino i delicati coppieri,
invita i Finei, o Afro, e gli Edipi.
XXVII
Cum depilatos, Chreste, coleos portes
et vulturino mentulam parem collo
et prostitutis levius caput culis,
nec vivat ullus in tuo pilus crure,
purgentque saevae cana labra volsellae;
Curios, Camillos, Quintios, Numas, Ancos,
et quidquid umquam legimus pilosorum
loqueris sonasque grandibus minax verbis,
et cum theatris saeculoque rixaris.

IX. 27

Benché tu porti depilati i coglioni, Cresto,
e una minchia simile al collo di un avvoltoio,
e una testa più liscia dei culi dei prostituti,
e nelle tue gambe non viva nessun pelo,
e spietate pinzette puliscano le tue bianche labbra,
parli sempre di Curii, Camilli, Quinzii, Numi, Anchi,
e di qualunque cosa talora leggiamo di quei barbuti,
e tuoni minaccioso con grosse parole,
e ti accapigli con i teatri e le usanze dei tempi.
Occurrit aliquis inter ista si draucus,
iam paedagogo liberatus et cuius
refibulavit turgidum faber penem,
nutu vocatum ducis, et pudet fari
Catoniana, Chreste, quod facis lingua.
Se a questo punto arriva un atleta 
ormai liberatosi del pedagogo, e a cui
l'esperto ha sciolto dalla fibbia il turgido pene,  
chiamatolo con un cenno te lo porti via, e io ho pudore a riferire
quello che tu fai, Cresto, con la tua catoniana lingua.
XXXII
Hanc volo quae facilis, quae palliolata vagatur,
hanc volo quae puero iam dedit ante meo,
hanc volo quam redimit totam denarius alter,
hanc volo quae pariter sufficit una tribus.
poscentem nummos et grandia verba sonantem
possideat crassae mentula Burdigalae.

IX. 32

Una ne voglio che sia facile, che vada girando coperta dal pallio,
una ne voglio che l'ha già data prima al mio schiavetto,
una ne voglio che chiunque la compra tutta con due denari,
una ne voglio che da sola basti a tre contemporaneamente.
Quella che chiede tanti soldi, e risonante di paroloni,
se la faccia il cazzo di un ricco di Bordeaux.
XXXIII
Audieris in quo, Flacce, balneo plausum,
Maronis illic esse mentulam scito.

IX. 33

Se nelle terme sentirai un applauso, Flacco,
sappi che lì c'è la minchia di Marone.
XXXVI
Viderat Ausonium posito modo crine ministrum
Phryx puer, alterius gaudia nota Iovis:
'Quod tuus ecce suo Caesar permisit ephebo
tu permitte tuo, maxime rector' ait;
'iam mihi prima latet longis lanugo capillis,
iam tua me ridet Iuno vocatque virum.'

IX. 36

Il fanciullo frigio, la gioia famosa dell'altro Giove,
aveva visto il coppiere italico [25] coi capelli tagliati da poco: «Quello che il tuo Cesare permise al suo efebo,
tu o sommo sovrano, concedilo al tuo:», disse;
«già la mia prima lanugine è nascosta dai capelli lunghi,
già la tua Giunone ride di me e mi chiama uomo».
Cui pater aetherius 'Puer o dulcissime,' dixit,
'non ego quod poscis, res negat ipsa tibi:
Caesar habet noster similis tibi mille ministros
tantaque sidereos vix capit aula mares;
at tibi si dederit vultus coma tonsa viriles,
quis mihi qui nectar misceat alter erit?'
A lui il padre celeste rispose: «O dolcissimo ragazzo,
non io, ma la realtà stessa, ti nega quel che chiedi:
il nostro Cesare ha mille coppieri simili a te,
e un tanto palazzo contiene a stento maschi splendenti;
ma se il taglio della chioma ti avrà dato un aspetto virile,

chi altri, al tuo posto, mi verserà il nettare?»

                XXXVII
Cum sis ipsa domi mediaque ornere Subura,
fiant absentes et tibi, Galla, comae,
nec dentes aliter quam Serica nocte reponas,
et iaceas centum condita pyxidibus,
nec tecum facies tua dormiat, innuis illo
quod tibi prolatum est mane supercilio,
et te nulla movet cani reverentia cunni,
quem potes inter avos iam numerare tuos.
promittis sescenta tamen; sed mentula surda est,
et sit lusca licet, te tamen illa videt.

IX. 37

Galla, te ne stai in casa, e intanto nel mezzo della Subura
tu vieni adornata, e si prepara per te la chioma che ti manca;
di notte deponi i denti allo stesso modo di un abito di seta,
giaci riposta in cento vasetti e la tua faccia non dorme
insieme con te. Tuttavia mi fai l'occhietto con quel sopracciglio
che al mattino è stato tirato fuori dalla scatola per te
e non hai nessun rispetto per la tua canuta fica,
che ormai puoi annoverare tra i tuoi antenati.
Prometti montagne di delizie: ma il mio cazzo è sordo,
e benché sia guercio tuttavia ti vede bene.
XL
Tarpeias Diodorus ad coronas
Romam cum peteret Pharo relicta,
vovit pro reditu viri Philaenis
illam lingeret ut puella simplex
quam castae quoque diligunt Sabinae.
dispersa rate tristibus procellis
mersus fluctibus obrutusque ponto
ad votum Diodorus enatavit.
O tardus nimis et piger maritus!
hoc in litore si puella votum
fecisset mea, protinus redissem.

IX. 40

Quando Diodoro, lasciata Faro, 
si dirigeva a Roma per concorrere alle corone tarpeie,  
Fileni, da ingenua fanciulla, fece voto,
per il ritorno del marito, di leccargli quella cosa 
che anche le caste Sabine amano.
Essendo stata la nave distrutta da violente tempeste,
Diodoro, caduto in mare e travolto dalle onde,
nuotò verso il compimento del voto.
Oh troppo lento e pigro marito!
Se la mia ragazza avesse fatto sulla spiaggia questo voto,
io sarei tornato indietro immediatamente.
XLI
Pontice, quod numquam futuis, sed paelice [26] laeva
uteris et Veneri servit amica manus,
hoc nihil esse putas? scelus est, mihi crede, sed ingens,
quantum vix animo concipis ipse tuo.
Nempe semel futuit, generaret Horatius ut tres;
Mars semel, ut geminos Ilia casta daret.
omnia perdiderat si masturbatus uterque
mandasset manibus gaudia foeda suis.
ipsam crede tibi naturam dicere rerum:
'Istud quod digitis, Pontice, perdis, homo est.'

IX. 41

Pontico, il fatto che tu mai fotti, ma adoperi la sinistra
come amante e a Venere è utile l'amica mano, 
pensi che ciò sia nulla? Un delitto è, credimi, e grande,
quanto a stento tu stesso nel tuo animo comprendi.
Certo, Orazio scopò una sola volta per generare tre figli;
Marte una sola volta, a che la casta Silvia desse i gemelli.
Tutto avrebbero perso se si fossero masturbati entrambi,
se avessero affidato alle loro mani i turpi piaceri.
Credimi che è la stessa natura delle cose a dirti:
«Questo che perdi con le tue dita, Pontico, è un uomo».
XLVII
Democritos, Zenonas inexplicitosque Platonas
quidquid et hirsutis squalet imaginibus,
sic quasi Pythagorae loqueris successor et heres.
praependet sane nec tibi barba minor:
sed, quod et hircosis serum est et turpe pilosis,
in molli rigidam clune libenter habes.
Tu, qui sectarum causas et pondera nosti,
dic mihi, percidi, Pannyche, dogma quod est?

IX. 47

Parli, senzi averli mai letti, dei Democriti, degli Zenoni,
dei Platoni, di ciò che è ruvido nelle irsute statue,
come se tu fossi successore e erede di Pitagora.
Naturalmente una barba non meno lunga ti scende sul petto.
Ma, cosa vergogonosa per chi puzza di becco e turpe per i pelosi, 
prendi volentieri fra le flaccide natiche una dura [minchia].
Tu che conosci le origini e le dottrine delle scuole filosofiche,
dimmi, Pannico: essere perforato che precetto è?
LVI
Spendophoros Libycas domini petit armiger urbis:
quae puero dones tela, Cupido, para,
illa quibus iuvenes figis mollesque puellas:
sit tamen in tenera levis et hasta manu,
loricam clypeumque tibi galeamque remitto;
tutus ut invadat proelia, nudus eat:
non iaculo [27], non ense fuit laesusve sagitta,
casside dum liber Parthenopaeus erat.
quisquis ab hoc fuerit fixus morietur amore.
O felix, si quem tam bona fata manent!
dum puer es, redeas, dum vultu lubricus, et te
non Libye faciat, sed tua Roma virum.

IX. 56

Spendoforo, lo scudiero del padrone, parte per le città libiche:
prepara, Cupido, le armi da regalare al ragazzo,
quelle con cui tu trafiggi i giovani e le tenere ragazze.
Tenga lui però nella sua delicata mano anche una lucida lancia;
ti restituisco la corazza, lo scudo e l'elmo:
per andare in battaglia sicuro, ci vada nudo:
non da giavellotto, spada o freccia, fu ferito
Partenopeo finché era privo dell'elmo.
Chiunque sarà trafitto da lui, morirà d'amore.
O felice colui a cui toccherà un così fortunato destino!
Ritorna finché sei ragazzo, finché sei liscio di viso,
e ti faccia uomo non la Libia, ma la tua Roma.
LVII
Nil est tritius Hedyli lacernis:
non ansae veterum Corinthiorum,
nec crus compede lubricum decenni,
nec ruptae recutita colIa mulae,
nec quae Flaminiam secant salebrae,
nec qui litoribus nitent lapilli,
nec Tusca ligo vinea politus,
nec pallens toga mortui tribulis,
nec pigri rota quassa mulionis,
nec rasum cavea latus visontis,
nec dens iam senior ferocis apri.

IX. 57

Non c'è nulla più consumato del mantello di Edilo:
non le anse di vecchi vasi di Corinto,
né la gamba resa liscia dalla catena di una decennale schiavitù,
né il collo scorticato di una bolsa mula,
né i solchi delle rotaie che segnano la via Flaminia,
né i ciottoli che luccicano sui lidi,
né la zappa levigata dal lavoro in una vigna toscana,
né la toga scolorita che copre la salma di un cittadino povero,
né la ruota sconquassata del carro di un pigro mulattiere,
né il fianco di un bisonte logorato dalla gabbia,
né il dente ormai vecchio di un feroce cinghiale.
Res una est tamen: ipse non negabit,
culus tritior Hedyli lacernis.
Una sola cosa c'è tuttavia: egli stesso non potrà negare:

più consumato del mantello è il culo di Edilo.

LIX
In Saeptis Mamurra diu multumque vagatus,
hic ubi Roma suas aurea vexat opes,
inspexit molles pueros oculisque comedit,
non hos quos primae prostituere casae [28],
sed quos arcanae servant tabulata catastae
et quos non populus nec mea turba videt.
inde satur mensas et opertos exuit orbes
expositumque alte pingue poposcit ebur,
et testudineum mensus quater hexaclinon
ingemuit citro non satis esse suo.

IX. 59

Mamurra, dopo avere vagato a lungo per il mercato,
là dove i ricchi signori romani sperperano le loro ricchezze,
scorse teneri ragazzi e se li mangiò con gli occhi,
ragazzi non come quelli che si prostituiscono davanti a tuguri,
ma di quelli che sono nascosti in soppalchi di retrobottega,
e che non vede né la folla né la gente come me.
Poi soddisfatto della vista, fa tirare fuori le tavole quadre e rotonde
e chiede di vedere i ricchi piedi d'avorio appesi in alto;
misura quattro volte un letto di tartaruga a sei piazze
e poi si lamenta perché non è, per il suo tavolo di cedro, grande abbastanza.
consuluit nares an olerent aera Corinthon,
culpavit statuas et, Polyclite, tuas,
et turbata brevi questus crystallina vitro
murrina signavit seposuitque decem.
Consultò il suo naso, per sapere se i vasi
odoravano proprio di Corinto, e trovò dei difetti nelle tue statue,
o Policleto; si è lagnato che alcuni vasi di cristallo fossero stati
guastati dall'aggiunta di pezzetti di vetro, fece segnare

e mettere da parte dieci coppe di murra.

expendit veteres calathos et si qua fuerunt
pocula Mentorea nobilitata manu,
et viridis picto gemmas numeravit in auro,
quidquid et a nivea grandius aure sonat.
sardonychas vero mensa quaesivit in omni
et pretium magnis fecit iaspidibus.
undecima lassus cum iam discederet hora,
asse duos calices emit et ipse tulit.
Soppesò vecchi boccali e quelle tazze,
nobilitate dalla mano di Mentore, che poté trovare;
contò gli smeraldi incastrati nell'oro cesellato
e i grossi orecchini, che risuonano appesi a candide orecchie.
Cercò con gli occhi su ogni banco le sardonici autentiche
e discusse sul prezzo dei grossi diaspri.
All'ora undecima, quando stanco ormai stava per andarsene,
comprò per un asse due calici e se li portò a casa egli stesso.

           

 

LXIII
Ad cenam invitant omnes te, Phoebe, cinaedi.
mentula quem pascit, non, puto, purus homo est.

IX. 63

Tutti i passivi ti invitano a pranzo, Febo.
L'uomo che il cazzo sfama non è, credo, un uomo pulito.
LXVII
Lascivam tota possedi nocte puellam,
cuius nequitias vincere nulla potest.
fessus mille modis illud puerile poposci:
ante preces totas primaque verba dedit.
inprobius quiddam ridensque rubensque rogavi:
pollicitast [29] nulla luxuriosa mora.
sed mihi pura fuit; tibi non erit, Aeschyle, si vis
accipere hoc munus conditione mala.

IX. 67

Ho posseduto per un'intera notte una lasciva ragazza,
che nessun'altra può vincere in malizia.
Stanco dei mille modi, le chiesi quello che si fa coi ragazzi:
prima che finissi di pregarla, anzi prima che parlassi, me lo diede.
Ridendo e arrossendo le chiesi qualcosa di più ardito:
la lussuriosa, senza alcun indugio, vi si impegnò più volte.
Ma onesta fu con me: con te, Eschilo, non lo sarà, se vuoi
ricevere questo regalo per sporco danaro.
LXIX
Cum futuis, Polycharme, soles in fine cacare.
cum pedicaris, quid, Polycharme, facis?

IX. 69

Dopo avere scopato, Policarmo, alla fine sei solito cacare.
Quando lo prendi in culo, che fai, Policarno?
LXXIII
Dentibus antiquas solitus producere pelles
et mordere luto putre vetusque solum,
Praenestina tenes decepti rura patroni,
in quibus indignor si tibi cella fuit;
rumpis et ardenti madidus crystalla Falerno
et pruris domini cum Ganymede tui.
at me litterulas stulti docuere parentes:
quid cum grammaticis rhetoribusque mihi?
Frange leves calamos et scinde, Thalia, libellos,
si dare sutori calceus ista potest.

IX. 73

Tu che eri solito tirare coi denti vecchie pelli
e mordere suole logore e fradice per il fango,
possiedi i poderi prenestini del padrone ingannato,
nei quali mi sdegno se tu hai avuto una cameretta;
ubriaco di ardente Falerno rompi le coppe
e ti togli le voglie col Ganimede del tuo padrone.
I miei sciocchi genitori mi hanno fatto studiare:
che ci ho guadagnato con grammatici e retori?
Spezza gli inutili calami e strappa, Talia, i libri,
se una scarpa può tutte queste cose a un calzolaio!
                LXXX
Duxerat esuriens locupletem pauper anumque:
uxorem pascit Gellius et futuit.

IX. 80

Povero e affamato ha sposato una donna vecchia e ricca:
Gellio pascola la moglie e fotte.
XC
Sic in gramine florido reclinis,
qua gemmantibus hinc et inde rivis
curva calculus excitatur unda,
exclusis procul omnibus molestis,
pertundas glaciem triente nigro,
frontem sutilibus ruber coronis;
sic uni tibi sit puer cinaedus
et castissima pruriat puella:

IX. 90

Possa tu, stando supino su un verde prato
tra limpidi ruscelli che ti scorrono vicino,
i cui ciottoli sono spinti dalle curve onde,
avendo cacciato lontano tutti gl'importuni,
possa tu filtrare attraverso la neve il nero vino dei tuoi calici,
con la fronte cinta da una rossa corona.
Possa essere tutto tuo un ragazzo passivo, 
e una castissima fanciulla sia attratta da te.
infamem nimio calore Cypron
observes moneo precorque, Flacce,
messes area cum teret crepantis
et fervens iuba saeviet leonis.
At tu, diva Paphi, remitte, nostris
inlaesum iuvenem remitte votis.
sic Martis tibi serviant Kalendae
et cum ture meroque victimaque
libetur tibi candidas ad aras
secta plurima quadra de placenta.
Ti avverto e ti prego, Fiacco,
di guardarti da Cipro malfamata
per il suo eccessivo calore, quando l'aia trebbierà i covoni
scoppiettanti e la criniera infuocata del leone infunerà.
Ma tu, dea di Pafo, restituisci ai nostri
voti il giovane sano e salvo:
così possa tu essere onorata alle calende di marzo,
e possano esserti offerte sui candidi altari
moltissime fette di focaccia
insieme a incenso, vino e vittime.
XCII
Quae mala sunt domini, quae servi commoda, nescis,
Condyle, qui servum te gemis esse diu.
dat tibi securos vilis tegeticula somnos,
pervigil in pluma Gaius ecce iacet.
Gaius a prima tremebundus luce salutat
tot dominos, at tu, Condyle, nec dominum.
'Quod debes, Gai, redde' inquit Phoebus et illinc
Cinnamus: hoc dicit, Condyle, nemo tibi.

IX. 92

Tu che ti lamenti per essere da troppo tempo schiavo, non conosci,
o Condilo, i guai del signore e i vantaggi dello schiavo.
A te una vile stuoia procura un sonno tranquillo;
Gaio, ecco, giace insonne sul suo letto di piume.
Gaio porta timoroso i suoi saluti fin dal primo mattino
a tanti padroni; ma tu, o Condilo, neppure al tuo padrone.
«Pagami il debito, o Gaio» gli dicono di qua Febo,
di là Cinnamo: a te, Condilo, nessuno dice ciò.
tortorem metuis? podagra cheragraque secatur
Gaius et mallet verbera mille pati.
quod nec mane vomis nec cunnum, Condyle, lingis,
non mavis quam ter Gaius esse tuus?
Temi la tortura? Ma Gaio è torturato dalla podagra
e dalla chiragra, e preferirebbe subire in cambio mille frustate.
Quanto poi al fatto che non vomiti al mattino e non lecchi fica,

non preferisci, Condilo, ciò all'essere tre volte il tuo Gaio?

XCIII
Addere quid cessas, puer, inmortale Falernum?
quadrantem duplica de seniore cado.
nunc mihi dic, quis erit cui te, Calacisse, deorum
Sex iubeo cyathos fundere? 'Caesar erit.'
Sutilis aptetur deciens rosa crinibus, ut sit
qui posuit sacrae nobile gentis opus.
nunc bis quina mihi da basia, fiat ut illud
nomen ab Odrysio quod deus orbe tulit.

IX. 93

Perché aspetti a versare, ragazzo, l'immortale falerno?
Versami due coppe di tre ciati da una vecchia anfora.
Dimmi ora: chi sarà quel dio al cui onore, Calocisso,
ti ordino di versare sei ciati? «Sarà Cesare».
Mi sia posta sul capo una corona di dieci rose, onde formare
il nome di colui che innalzò lo splendido tempio della sacra famiglia.
Ora dammi due volte cinque baci, onde formare
quel nome che il nostro dio portò dalla regione Odrisia.
CIII
Quae nova tam similis genuitibi Leda ministros?
quae capta est alio nuda Lacaena cycno?
dat faciem Pollux Hiero, dat Castor Asylo,
atque in utroque nitet Tyndaris ore soror.
ista Therapnaeis si forma fuisset Amyclis,
cum vicere duas dona minora deas,
mansisses, Helene, Phrygiamque redisset in Iden
Dardanius gemino cum Ganymede Paris.

IX. 103

Quale nuova Leda ti ha generato schiavetti tanto simili?
Quale nuda spartana è stata posseduta nuda da un altro cigno?
Gero ha il viso di Polluce, Asilo quello di Castore,
e in tutti e due i volti splende la sorella tindaride.[30]
Se a Sparta ci fosse stata simile bellezza,
quando le due dee furono vinte dai loro doni minori,
tu Elena, saresti rimasta a Sparta, e il troiano Paride
sarebbe tornato alla frigia Ida con questi gemelli Ganimedi.








EPIGRAMMI da Libro 10  (n. 8)

VIII.
Nubere Paula cupit nobis, ego ducere Paulam
nolo: anus est. Vellem, si magis esset anus.

X. 8

Paola vuole sposarmi, io sposare Paola
non voglio: è vecchia. Vorrei, se più ancora fosse vecchia.
XL.
Semper cum mihi diceretur esse
secreto mea Polla cum cinaedo, [31]
inrupi, Lupe. Non erat cinaedus.

X. 40

Visto che mi veniva sempre detto  che la mia Polla
se la faceva di nascosto con un passivo,
ho fatto un'irruzione, Lupo. Non era passivo.
XLII.
Tam dubia est lanugo tibi, tam mollis ut illam
halitus et soles et levis aura terat.
Celantur simili ventura Cydonealana,
pollice virgineo quae spoliata nitent.
Fortius inpressi quotiens tibi basia quinque,
barbatus labris, Dindyme, fio tuis.

X. 42.

La tua lanugine è così incerta, così delicata che basta un alito,
il sole, una brezza lieve a cancellarla.
Di simile velo sono nascoste le future mele cotogne,
che luccicano lisciate dal pollice di una vergine.
Tutte le volte che ti do cinque forti baci,
le tue labbra, Dindimo, mi rendono barbuto.
LXIV
Contigeris regina meos si Polla libellos,
non tetrica nostros excipe fronte iocos.
Ille tuus vates, Heliconis gloria nostri, [32]
Pieria caneret cum fera bella tuba,
non tamen erubuit lascivo dicere versu
«Si nec pedicor, Cotta, quid hic facio?»

X. 64.

Polla, mia protettrice, se ti capitano i miei libretti,
non guardare con occhio severo le mie facezie.
Perfino quel tuo vate [33], gloria del nostro Elicona,
quando cantava con versi ispirati dalla Musa la terribile guerra,
non si vergognò di dire in un verso lascivo:
«Se manco in culo lo prendo, Cotta, che ci faccio qui?»
LXV.
Cum te municipem Corinthiorum
iactes, Charmenion, negante nullo,
cur frater tibi dicor, ex Hiberis
et Celtis genitus Tagique civis?
An voltu similes videmur esse?
Tu flexa nitidus coma vagaris,
Hispanis ego contumax capillis;
levis dropacetu cotidiano, hirsutis
ego cruribus genisque;
os blaesum tibi debilisque lingua est,
nobis ilia fortius loquuntur:
tam dispar aquilae columba non est,
nec dorcas rigido fugax leoni.
Quare desine me vocare fratrem,
ne te, Charmenion, vocem sororem.

X. 65.

Poiché ti vanti, Carmenione, di essere cittadino
di Corinto, e nessuno lo nega,
perché chiami fratello uno come me,
che discende dai Celtiberi, cittadino del Tago?
Sembriamo forse simili nel volto?
Tu vai splendido con la chioma ondulata,
io insolente coi capelli irti degli Spagnoli;
tu sei liscio per il quotidiano dropace,
io con gambe e guance irsute;
tu hai bocca blesa e debole voce,
io fianchi che gridano con forza:
la colomba non è tanto diversa dall'aquila,
né la fuggente gazzella dal feroce leone.
Per cui smetti di chiamarmi fratello,
se no io, Carmenione, ti chiamerò sorella.
LXVIII.
Cum tibi non Ephesos nec sit Rhodos aut Mitylene,
sed domus in vico, Laelia, patricio,
deque coloratis numquam lita mater Etruscis,
durus Aricina de regione pater;
Κύριέ μου, μέλι μου, ψυχή μου, congeris usque,
- pro pudor! - Hersiliae civis et Egeriae.
Lectulus has voces, nec lectulus audiat omnis,
sed quem lascivo stravit amica viro.

X. 68.

Pure se tu non sei di Efeso, né di Rodi o di Mitilene,
ma hai casa, Lelia, sulla via Patrizia;
con una madre mai impiastrata di belletti etruschi
e un severo padre della regione di Ariccia,
continuamente dici: « Κύριέ μου, μέλι μου, ψυχή μου.[34] 
Che vergogna per una cittadina di Ersilia e di Egeria!
Ascolti pure tali parole il letto, e non ogni letto,
ma quello che l'amante ha preparato per il suo lascivo uomo.
Scire cupis quo casta modo matrona loquaris?
Numquid, cum crisas, blandior esse potes?
Tu licet ediscas totam referasque Corinthon,
non tamen omnino, Laelia, Lais eris.
Vuoi sapere in che modo devi parlare tu che sei casta matrona?
Puoi mai essere più seducente, quando ancheggi?
Tu puoi sapere e attuare tutte le arti delle donne corinzie:

tuttavia, o Lelia, non sarai mai una Laide.

LXXXI.
Cum duo venissent ad Phyllida mane fututum
et nudam cuperet sumere uterque prior,
promisit pariter se Phyllis utrique daturam,
et dedit: ille pedem sustulit, hic tunicam.

X. 81.

Da Fillide erano venuti in due, di buon mattino, per fottere, 
e ciascuno dei due voleva essere il primo a possederla nuda.
Fillide promise che si sarebbe data a entrambi contemporaneamente,
e così fece. Uno le alzò il piede e l'altro la tunica [35]
XCVIII.
Addat cum mihi Caecubum minister
Idaeo resolutior cinaedo,
quo nec filia cultior nec uxor
nec mater tua nec soror recumbit,
vis spectem potius tuas lucernas
aut citrum vetus Indicosque dentes?
Suspectus tibi ne tamen recumbam,
praesta de grege sordidaque villa
tonsos, horridulos, rudes, pusillos
hircosi mihi filios subulci.
Perdet te dolor hic: habere, Publi,
mores non potes hos et hos ministros.

X. 98.

Mentre mi versa il cecubo un coppiere 
più effeminato del finocchio dell'Ida [36],
più elegante di tua figlia, di tua moglie,
di tua madre e di tua sorella sdraiate sul triclinio:
vuoi forse che io guardi le tue lucerne
o il tuo legno di cedro stagionato o l'avorio indiano?
Se però non vuoi che io ceni guardato male da te,
fammi servire da tipi rasati, meschini, irsuti e rozzi,
venuti dal branco, dalla rude campagna,
insignificanti figli di un porcaio che odora di becco.
Questa gelosia sarà la tua rovina:
non puoi avere, Publio, questo carattere e questi coppieri.




EPIGRAMMI da Libro 11  (n. 37)

VII
Iam certe stupido non dices, Paula, marito,
ad moechum quotiens longius ire voles,
"Caesar in Albanum iussit me mane venire,
Caesar Circeios." Iam stropha talis abit.
Penelopae licet esse tibi sub principe Nerva:
sed prohibet scabies ingeniumque vetus.
Infelix, quid ages? Aegram simulabis amicam?
Haerebit dominae vir comes ipse suae,
ibit et ad fratrem tecum matremque patremque.

XI. 7

Ormai non potrai più dire al tuo marito cretino, Paola,
tutte le volte che vorrai andare lontano, presso il tuo amante:
«Cesare mi ha ordinato di recarmi domattina ad Alba;
di andare al Circeo». Questa storiella non regge più.
Sotto l'imperatore Nerva tu puoi essere una Penelope,
ma te lo vietano il tuo prurito e le tue vecchie abitudini.
Che farai, infelice? Fingerai di avere un'amica malata?
Tuo marito starà attaccato alla sua moglie amata,
verrà con te da tuo fratello, da tua madre, da tuo padre.
Quas igitur fraudes ingeniosa pares?
Diceret hystericam se forsitan altera moecha
in Sinuessano velle sedere lacu.
Quanto tu melius, quotiens placet ire fututum,
quae verum mavis dicere, Paula, viro!
Quali inganni partorirà allora tu con la tua astuzia?
Un'altra adultera direbbe forse di essere isterica
e di voler fare i bagni nel lago di Sinuessa.
Quanto meglio, quando ti vien voglia di andare a fottere,
dire la verità, Paola, al tuo uomo.
VIII
Lassa quod nesterni spirant opobalsama dracti,
ultima quod curvo quae cadit nura croco;
poma quod hiberna maturescentia capsa,
arbole quod verna luxuriosus ager;
de Palatinis dominae quod Serica prelis,
sucina virginea quod regelata manu;
amphora quod nigri, sed longe, fracta Falerni,
quod qui Sicanias detinet hortus apes;
quod Cosmi redolent alabastra focique deorum,
quod modo divitibus lapsa corona comis:

XI. 8

L'odore che spirano i recenti balsami di un vaso di profumi,
quello che manda l'ultimo goccio del getto di zafferano,
il profumo delle mele che d'inverno maturano dentro una cassa,
quello di un campo ricco di alberi in primavera,
delle vesti di seta dell'imperatrice estratti dagli armadi del Palazzo,
il profumo dell'ambra scaldata dalle mani di una vergine;
di un'anfora di scuro falerno che s'è rotta lontano,
quello di un giardino che attira le api sicule;
l'odore dei vasi del profumiere Cosmo, dei divini altari,
della corona appena caduta da una bella chioma.
singula quid dicam? Non sunt satis; omnia misce
hoc fragrant pueri basia mane mei.
Scire cupis nomen? Si propter basia, dicam.
Iurasti. Nimium scire, Sabine, cupis.
Perché dire le cose una per una? Non bastano; mescola tutto: 
ecco il profumo dei baci del mio ragazzo al mattino.
Vuoi saperne il nome? Se è per i baci, te lo dirò.
Hai giurato. Vuoi sapere troppo, Sabino.
XV
Sunt chartae mihi quas Catonis uxor
et quas horribiles legant Sabinae:
hic totus volo rideat libellus
et sit nequior omnibus libellis.
Qui vino madeat nec erubescat
pingui sordidus esse Cosmiano,
ludat cum pueris, amet puellas,
nec per circuitus loquatur illam,
ex qua nascimur, omnium parentem,
quam sanctus Numa mentulam vocabat.
Versus hos tamen esse tu memento
Saturnalicios, Apollinaris:
mores non habet hic meos libellus.

XI. 15

Ho scritto dei libri che potrebbero leggere
la moglie di Catone e le austere Sabine:
voglio che questo sia dedicato tutto al riso
e sia più sfacciato di tutti i libri.
Sia umido di vino e non si vergogni
di essere tutto spalmato dei grassi unguenti di Cosmo;
voglio che giochi coi ragazzi e ami le ragazze,
che non usi giri di parole per chiamare
il nostro padre comune, quello ci ha fatti nascere tutti,
quello che il santo Numa chiamava cazzo.
Ricordati però, Apollinare, che questi versi
sono stati scritti per i Saturnali:
questo libretto non riflette affatto i miei costumi.
XVI
Qui gravis es nimium, potes hinc iam, lector, abire
quo libet: urbanae scripsimus ista togae;
iam mea Lampsacio lascivit pagina versu
et Tartesiaca concrepat aera manu.
O quotiens rigida pulsabis pallia vena,
sis gravior Curio Fabricioque licet!
Tu quoque nequitias nostri lususque libelli
uda, puella, leges, sis Patavina licet.
Erubuit posuitque meum Lucretia librum,
sed coram Bruto; Brute, recede: leget.

XI. 16

O lettore troppo arcigno, tu puoi ora andartene dove ti piace.
Fin qui ho scritto per i cittadini romani;
ma ormai la mia pagina folleggia con versi osceni di Lampsaco,
ormai agita le nacchere con mano di ballerina gaditana.
Quante volte urterai col tuo rigido cazzo contro il mantello,
ancorché tu sia più austero di Curio e di Fabrizio!
Pure tu, ragazza, benché pudica padovana,
leggerai bagnata le sfacciate facezie del mio libretto.
Lucrezia è arrossita e ha posato il mio libro:
ma perché c'era Bruto. Bruto, vattene: lei lo leggerà.
XIX
Quaeris cur nolim te ducere, Galla? Diserta es
saepe soloecismum mentula nostra facit.

XI. 19

O Galla, mi chiedi perché non ti voglio sposare? Sei troppo colta: il mio cazzo fa spesso errori di grammatica.
XX
Caesaris Augusti lascivos, livide, versus
sex lege, qui tristis verba Latina legis:
"Quod futuit Glaphyran Antonius, hanc mihi poenam
Fulvia constituit, se quoque uti futuam.
Fulviam ego ut futuam? Quod si me Manius oret
pedicem? [37] faciam? Non puto, si sapiam.
'Aut futue, aut pugnemus' ait. Quid quod mihi vita
carior est ipsa mentula?
 Signa canant!"
Absolvis lepidos nimirum, Auguste, libellos,
qui scis Romana simplicitate loqui.

XI. 20

Leggi questi sei versi lascivi di Cesare Augusto, invidioso,
che leggi con volto accigliato parole latine:
«Poiché Antonio fotte Glafira, questa punizione per me
Fulvia ha deciso: che anche io fotta lei.
Io fottere Fulvia? E che, se Manio mi pregasse
di incularlo, lo farei? Non credo, se sono assennato.
«O mi fotti o facciamo a botte.», dice. «Che vuoi se più
della mia vita mi è caro il cazzo? Squillino le trombe!».
O Augusto, mi assolvi certamente i miei scherzosi libretti,
tu che sai parlare con romana schiettezza.
XXI
Lydia tam laxa est equitis quam culus aeni,
quam celer arguto qui sonat aere trochus,
quam rota transmisso totiens inpacta petauro,
quam vetus a crassa calceus udus aqua,
quam quae rara vagos expectant retia turdos,
quam Pompeiano vela negata Noto,
quam quae de pthisico lapsa est armilla cinaedo,
culcita Leuconico quam viduata suo,
quam veteres bracae Brittonis pauperis, et quam
urpe Ravennatis guttur onocrotali.

XI. 21

Lidia l'ha tanto larga, quanto le chiappe di un cavallo di bronzo,
quanto il veloce cerchio che risuona con i suoi rumorosi anelli di bronzo,
quanto la ruota non toccata dal bastone tante volte tirato,
quanto una vecchia ciabatta rammollita da acqua melmosa,
quanto una rada rete che aspetta i vaganti tordi,
quanto il tendone che non si distende al vento nel teatro di Pompeo,
quanto il bracciale che è caduto dal braccio di un bagascione tisico,
quanto il materasso privo della sua lana leuconica,
quanto le vecchie brache di un povero britanno,
quanto il brutto gozzo di un pellicano ravennate.
Hanc in piscina dicor futuisse marina.
Nescio; piscinam me futuisse puto.
Dicono che io l'abbia fottuto nella piscina marina. 

Non so nulla: penso di aver fottuto la piscina.

XXII
Mollia quod nivei duro teris ore Galaesi
basia, quod nudo cum Ganymede iaces,
-quis negat?- hoc nimium'st. Sed sit satis; inguina saltem
parce fututrici sollicitare manu.

Levibus in pueris plus haec quam mentula peccat

et faciunt digiti praecipitantque virum: 
inde tragus celeresque pili mirandaque matri
barba, nec in clara balnea luce placent.
Divisit natura marem: pars una puellis,
una viris genita est. Utere parte tua.

XI. 22

Che tu con la tua ispida bocca strofini le labbra delicate
del candido Galeso, che tu dorma con un Ganimede nudo
- chi lo nega?-  questo è troppo. Ma ti basti: evita almeno
di eccitare con la mano adescatrice il suo inguine.
Nei confronti dei fanciulli lisci questo corrompe più che il cazzo: 
le dita li rendono uomini prima del tempo:
poi ecco l'odore di capra, i rapidi peli, e la barba, incredibile per la madre,
e non ti piace più che faccia il bagno alla luce del giorno.
La natura ha diviso il maschio: una parte per le ragazze,
una è stata fatta per gli uomini. Tu usa la parte tua.
XXV
Illa salax nimium nec paucis nota puellis
stare Lino desît mentula. Lingua, cave.

XI. 25

Quel cazzo troppo lascivo, noto a non poche ragazze,
non sta più ritto a Lino. Lingua, stai attenta.
XXVI
O mihi grata quies, o blanda, Telesphore, cura,
qualis in amplexu non fuit ante meo,
basia da nobis vetulo, puer, uda Falerno,
pocula da labris facta minora tuis.
Addideris super haec Veneris si gaudia vera,
esse negem melius cum Ganymede Iovi.

XI. 26

Oh mio gradito sollievo e dolce tormento, Telesforo,
nessuno prima ho mai abbracciato che fosse come te:
dammi, ragazzo, baci umidi di vecchio falerno,
e coppe che i tuoi baci hanno reso meno colme.
Se a questi aggiungerai i veri piaceri di Venere,
dirò che a Giove con il suo Ganimede non capita meglio.
XXVIII
Invasit medici Nasica phreneticus Eucti
et percidit Hylan. Hic, puto, sanus erat.

XI. 28

Quel pazzo di Nasica ha assalito Ila, lo schiavo del medico Eucto,
e lo ha rotto. [38] Costui, penso, era sano di mente.
XXIX
Languida cum vetula tractare virilia dextra
coepisti, iugulor pollice, Phylli, tuo.
Iam cum me murem, cum me tua lumina dicis,
horis me refici vix puto posse decem.
Blanditias nescis: "dabo" dic "tibi milia centum
et dabo Setini iugera certa soli;
accipe vina, domum, pueros, chrysendeta, mensas."
Nil opus est digitis: sic mihi, Phylli, frica.

XI. 29

Quando cominci a maneggiare con la tua vecchia mano
i miei genitali cadenti, il tuo pollice, Fillide, mi uccide.
Quando poi mi chiami topolino, quando mi chiami luce dei tuoi occhi,
penso che non basteranno dieci ore per rimettermi a posto.
Tu non sai blandire: “Ti darò”, dimmi, “centomila sesterzi”,
“ti darò un fondo ben coltivato in quel di Sezze;
accetta in dono vini, casa, schiavetti, auree stoviglie, tavoli da mensa”.
Non c'è nessun bisogno di dita: così, Fillide, massaggiami.
XXX
Os male causidicis et dicis olere poetis.
Sed fellatori, Zoile, peius olet.

XI. 30

Gli avvocati hanno la bocca maleodorante, tu dici, e pure i poeti.
Ma al succchiacazzi, Zoilo, puzza di più.
                XL
Formosam Glyceran amat Lupercus
et solus tenet imperatque solus.
Quam toto sibi mense non fututam
cum tristis quereretur et roganti
causam reddere vellet Aeliano,
respondit Glycerae dolere dentes.

XI. 40

Luperco ama la bella Glicera:
da solo la tiene e da solo imperat.
Poiché si lamentava triste che
era da un mese che non se la fotteva,
a Eliano che chiedeva che gliene dicesse il motivo,
rispose che a Glicera dolevano i denti.
XLIII
Deprensum in[39] puero tetricis me vocibus, uxor,
corripis et culum te quoque habere refers.
Dixit idem quotiens lascivo Iuno Tonanti!
Ille tamen grandi cum Ganymede iacet.
Incurvabat Hylan posito Tirynthius
[40] arcu:
tu Megaran credis non habuisse natis?
Torquebat Phoebum Daphne fugitiva: sed illas
Oebalius flammas iussit abire puer.

XI. 43

Moglie, per avermi sorpreso che la mettevo dentro a un ragazzino, mi sgridi con tono severo dicendo che anche tu hai un culo.
Quante volte Giunone disse la stessa cosa al lascivo Giove!
Lui tuttavia va a letto con Ganimede già grande;
e il tirinzio, deposto l'arco, faceva curvare Ila: [41]  
credi tu che Megara non avesse natiche?
Dafne sfuggente era il tormento di Febo: ma provvide
il ragazzino figlio di Ebalo [42] a spegnergli quelle fiamme.
Briseis multum quamvis aversa iaceret,
Aeacidae [43] propior levis amicus erat.
Parce tuis igitur dare mascula nomina rebus
teque puta cunnos, uxor, habere duos.
E ad Achille, anche se Briseide spesso si sdraiava
girata all'indietro, intrigava di più il suo glabro amico.
Smettila quindi di dare nomi maschili alle tue cose,

e convinciti, moglie, che tu hai due fiche.

XLV
Intrasti quotiens inscriptae limina cellae,
seu puer arrisit sive puella tibi,
contentus non es foribus veloque seraque,
secretumque iubes grandius esse tibi:
oblinitur minimae si qua est suspicio rimae
punctaque lasciva quae terebrantur acu.
Nemo est tam teneri tam sollicitique pudoris
qui vel pedicat, Canthare, vel futuit.

XI. 45

Ogni volta che hai varcato le soglie di una anonima stanzetta,
o ti ha sorriso un ragazzino o una ragazza,
non ti accontenti delle porta, della tenda, del chiavistello,
ma pretendi che ci sia per te la più assoluta segretezza:
se c'è anche il sospetto di un minuscolo forellino,
di quelli fatti dagli aghi dei guardoni, viene otturato.
Nessuno però ha un pudore così delicato e preoccupato, 
se si limita o a inculare, Cantaro, o a fottere. [44]

           

XLVI
Iam nisi per somnum non arrigis et tibi, Mevi,
incipit in medios meiere verpa pedes,
truditur et digitis pannucea mentula lassis
nec levat extinctum sollicitata caput.
Quid miseros frustra cunnos culosque lacessis?
Summa petas: illic mentula vivit anus.

XI. 46

Ormai ti si drizza se non nei sogni, Mevio, 
in mezzo ai piedi il membro comincia a pisciarti,
e il cazzo raggrinzito viene sospinto da stanche dita
ma neanche sollecitato solleva il capo spompato.
Perché torturi inutilmente fiche e culi sventurati?
Cerca luoghi più alti: lassù un vecchio cazzo trova vita.
XLVII
Omnia femineis quare dilecta catervis
balnea devitat Lattara? Ne futuat.
Cur nec Pompeia lentus spatiatur in umbra
nec petit Inachidos limina? Ne futuat.
Cur Lacedaemonio luteum ceromate corpus
perfundit gelida Virgine? Ne futuat.
cum sic feminei generis contagia vitet,
cur lingit cunnum Lattara? Ne futuat.

XI. 47

Perché Lattara evita tutti i bagni assiduamente
frequentati dalle donne? Per non fottere.
Perché non passeggia lentamente sotto il portico di Pompeo
e non cerca la soglia del tempio di Iside? Per non fottere.
Perché immerge il corpo sporco di unguenti spartani
nella gelida acqua Vergine? Per non fottere.
E se evita in tal modo il contatto con le donne, 
perché lecca la fica Lattara? per non fottere.
LVI
Quod nimium mortem, Chaeremon Stoice, laudas,
vis animum mirer suspiciamque tuum?
hanc tibi virtutem fracta facit urceus ansa,
et tristis nullo qui tepet igne focus,
et teges et cimex et nudi sponda grabati,
et brevis atque eadem nocte dieque toga.
O quam magnus homo es, qui faece rubentis aceti
et stipula et nigro pane carere potes!

XI. 56

O stoico Cheremone, vuoi che io ammiri e apprezzi
il tuo animo, perché ti profondi in lodi sulla morte?
Questa grandezza d'animo te la dànno l'orcio dal manico rotto,
lo squallido focolare non scaldato dal fuoco, la stuoia, le cimici,
la sponda del tuo misero lettuccio, la corta toga
che porti sempre di notte e di giorno.
Che magnanimo uomo sei tu che puoi fare a meno della feccia
di un rosso aceto, di un letto di paglia e di un tozzo di pane nero!
Leuconicis agedum tumeat tibi culcita lanis
constringatque tuos purpura pexa toros,
dormiat et tecum modo qui, dum Caecuba miscet,
convivas roseo torserat ore puer:
o quam tu cupies ter vivere Nestoris annos
et nihil ex ulla perdere luce voles!
rebus in angustis facile est contemnere vitam:
fortiter ille facit qui miser esse potest.
Orsù, supponiamo che il tuo materasso sia pieno di lana leuconica,
che una coperta di porpora copra il tuo letto 
e che dorma con te quel fanciullo che mentre mesceva il cecubo,
aveva attirato gli sguardi dei commensali col suo roseo viso:
oh, come desidereresti vivere tre volte la vita di Nestore
e non perdere un istante di nessuna giornata!
È facile disprezzare la vita nelle ristrettezze;
è forte colui che sa sopportare la miseria.
                LVIII
Cum me velle vides tentumque, Telesphore, sentis,
magna rogas, puta me velle negare: licet?,
et nisi iuratus dixi "dabo", subtrahis illas, 
permittunt in me quae tibi multa, natis.
Quid si me tonsor, cum stricta novacula supra est,
tunc libertatem divitiasque roget?
Promittam; neque enim rogat illo tempore tonsor,
latro rogat; res est imperiosa timor:

XI. 58

Quando vedi che io voglio e capisci che sono eccitato, Telesforo,
mi chiedi una forte somma. Immagina che io voglia dire no: potrei?
E se non ti dico sotto giuramento: “Te la darò”, tu neghi
quelle natiche che ti danno tanto potere su di me.
Che farei, se il barbiere, quando impugna sopra di me il rasoio,
mi chiedesse libertà e ricchezze? Gliele prometterei:
infatti in quel momento non sarebbe un barbiere a chiedermele,
ma un furfante, e la paura è un tiranno intrattabile.
sed fuerit curva cum tuta novacula theca,
frangam tonsori crura manusque simul.
At tibi nil faciam, sed lota mentula lana
λαϰάζϵιν [45] cupidae dicet avaritiae.
Ma appena il rasoio fosse al sicuro nella sua ricurva guaina,
spezzerei al barbiere gambe e mani a un tempo.
A te però non farò nulla: ma il mio cazzo, dopo averlo io pulito

con la lana, dirà alla tua sfrenata avidità di andare a prostituirsi.

LX
Sit Phlogis an Chione Veneri magis apta requiris?
pulchrior est Chione; sed Phlogis ulcus habet;
ulcus habet Priami quod tendere possit alutam
quodque senem Pelian non sinat esse senem;
ulcus habet quod habere suam vult quisque puellam,
quod sanare Criton, non quod Hygia potest.
At Chione non sentit opus nec vocibus ullis
adiuvat, absentem marmoreamve putes.

XI. 60

Mi chiedi se è meglio in amore Flogis o Chione?
Chione è più bella; ma Flogis ha una libidine [46] ,
sì, una libidine che farebbe drizzare il floscio cuoio di Priamo
e farebbe sì che il vecchio Pelia non si sentisse vecchio:
quella libidine che ognuno vorrebbe che la sua ragazza avesse,
e che può sanare Critone, non Igea. [47]
Chione invece è fredda e non ti eccita con nessuna parolina:
la crederesti assente o fatta di marmo.
Exorare, dei, si vos tam magna liceret
et bona velletis tam pretiosa dare,
hoc quod habet Chione corpus faceretis haberet
ut Phlogis, et Chione quod Phlogis ulcus habet.
O dèi, se fosse lecito chiedervi una così grande grazia,
e voi foste disposti a concedere un bene così prezioso, 
fate in modo che Flogis abbia il corpo di Chione,

e Chione la libidine di Flogis.

LXI
Lingua maritus, moechus ore Nanneius,
Summemmianis inquinatior buccis,
quem cum fenestra vidit a Suburana
obscena nudum Leda, fornicem cludit
mediumque mavult basiare quam summum,
modo qui per omnes viscerum tubos ibat
et voce certa consciaque dicebat
puer an puella matris esset in ventre,
(gaudete cunni; vestra namque res acta est)
arrigere linguam non potest fututricem.

XI. 61

Nanneio, marito con la lingua, adultero con la bocca [48],
più lurido delle bocche delle puttane del Summemmio,
vedendo il quale nudo dalla finestra l'oscena Leda,
nella Subura, chiude il suo bordello
e preferisce baciarlo fra le cosce piuttosto che sulla bocca;
che penetrava tutti i condotti viscerali
e diceva con voce sicura e convinta se il frutto
del ventre materno era maschio o femmina
(allegre, fiche: il vostro supplizio è finito),
[costui] non può più rizzare la sua lingua fottitrice.
Nam dum tumenti mersus haeret in vulva
et vagientes intus audit infantes,
partem gulosam solvit indecens morbus.
Nec purus esse nunc potest nec impurus.
Infatti mentre stava tutto immerso in una gonfia vulva
e ascoltava lì dentro i vagiti del nascituro,
un male schifoso colpì quella sua ingorda lingua.

E ora non può più essere né puro né impuro.

LXII
Lesbia se iurat gratis numquam esse fututam.
Verum'st. Cum futui vult, numerare solet.

XI. 62

Lesbia giura di non essersi mai fatta scopare gratuitamente.
È vero: quando vuole farsi scopare, è solita pagare.
                LXIII
Spectas nos, Philomuse, cum lavamur,
et quare mihi tam mutuniati
sint leves pueri subinde quaeris.
Dicam simpliciter tibi roganti:
pedicant, Philomuse, curiosos.

XI. 63

Tu ci guardi, Filomuso, quando facciamo il bagno,
e chiedi ripetutamente per quale motivo 
i miei schiavetti lisci siano così superdotati.
Te lo dirò in poche parole, visto che me lo chiedi: 
inculano i curiosi, o Filomuso.
LXX
Vendere, Tucca, potes centenis milibus emptos?
Plorantis dominos vendere, Tucca, potes?
Nec te blanditiae, nec verba rudesve querelae,
nec te dente tuo saucia colla movent?
ah facinus! Tunica patet inguen utrimque levata,
inspiciturque tua mentula facta manu.

Si te delectat numerata pecunia, vende
argentum, mensas, murrina, rura, domum;
vende senes servos, ignoscent, vende paternos:
ne pueros vendas, omnia vende miser.
Luxuria est emere hos, quis enim dubitatve negatve?,
sed multo maior vendere luxuria est.

XI. 70

Puoi vendere, Tucca, [schiavetti] pagati centomila sesterzi?
puoi vendere, Tucca, i tuoi padroni piangenti?
Non ti commuovono le carezze, le parole,
gli ingenui lamenti, i colli feriti dai tuoi morsi?
Ah delitto! La tunica sollevata da ambo i lati mostra il pube,
e si vede il cazzo lavorato dalla tua mano.
Se ami il denaro contante, vendi l'argenteria,
i tavoli da pranzo, le coppe di mirra, i campi, la casa, 
vendi i vecchi servi, ti scuseranno, vendi gli schiavi ereditati.
Pur di non vendere questi fanciulli, vendi tutto, disgraziato.
Comprarli è un lusso da folli, chi ne dubita o chi lo nega?
ma venderli è un lusso maggiore.
LXXI
Hystericam vetulo se dixerat esse marito
et queritur futui Leda necesse sibi;
sed flens atque gemens tanti negat esse salutem
seque refert potius proposuisse mori.
Vir rogat ut vivat virides nec deserat annos,
et fieri quod iam non facit ipse sinit.
Protinus accedunt medici medicaeque recedunt,
tollunturque pedes. O medicina gravis!

XI. 71

Leda aveva detto al suo vecchio marito di essere isterica
e lamentava che le era necessario farsi scopare.
Ma piangendo e gemendo dice che la sua salute
non vale così tanto e che piuttosto preferisce morire.
Il marito la prega di vivere e di non rinunziare ai suoi verdi anni,
e permette che si faccia quello che lui da tempo non fa.
Arrivano subito i medici e vanno via le dottoresse,
su le gambe. Oh, che medicina mara!
LXXII
Drauci Natta sui vocat pipinnam,
collatus cui gallus est Priapus.

XI. 72

Natta chiama pisellino il cazzo del suo giovane fusto,
al cui confronto Priapo è un eunuco.
LXXV
Theca tectus ahenea lavatur
tecum, Caelia, servus; ut quid, oro,
non sit cum citharoedus aut choraules?
Non vis, ut puto, mentulam videre.
Quare cum populo lavaris ergo?
Omnes an tibi nos sumus spadones?
Ergo, ne videaris invidere,
servo, Caelia, fibulam remitte.

XI. 75

Con te si lava, Celia, un servo coperto
da una cintura di bronzo. Perché, chiedo,
visto che non suona né la cetra né il flauto?
Non vuoi, io penso, vedere il suo cazzo.
E allora perché fai il bagno con tutti noi?
Forse che tutti noi ti sembriamo castrati?
Quindi, per non dare l'idea di essere gelosa,
sciogli la cintura, Celia, al tuo servo.
LXXVIII
Utere femineis complexibus, utere, Victor,
ignotumque sibi mentula discat opus. 
Flammea texuntur sponsae, iam virgo paratur,
tondebit pueros iam nova nupta tuos.
Pedicare semel cupido dabit illa marito,
dum metuit teli vulnera prima novi:
saepius hoc fieri nutrix materque vetabunt
et dicent: "uxor, non puer, ista tibi est."
Heu quantos aestus, quantos patiere labores,
si fuerit cunnus res peregrina tibi!

Ergo Suburanae tironem trade magistrae.
Illa virum faciet; non bene virgo docet.

XI. 78

Pràtica, Vittore, amplessi con le donne, pràticali,
e il tuo cazzo impari il mestiere che gli è ignoto.
Già si tesse il velo della sposa, già la vergine si prepara alle nozze,
e da sposata taglierà i capelli ai tuoi ragazzini.
A te, voglioso marito, per una volta concederà di incularla,
perché teme la prima ferita della tua arma mai sperimentata.
Ma nutrice e madre vieteranno che ciò avvenga spesso,
dicendo: “È moglie, e non ragazzino, questa per te”.
Ahi, quanti sudori, quante fatiche patirai
se la fica rimarrà per te una cosa sconosciuta!
Quindi affidati da principiante a una maestra della Subura.
Lei ti farà uomo: una vergine non insegna bene.
LXXXI
Cum sene communem vexat spado Dindymus Aeglen
et iacet in medio sicca puella toro.
Viribus hic, operi non est hic utilis annis:
ergo sine effectu prurit utrique labor.
Supplex illa rogat pro se miserisque duobus,
hunc iuvenem facias, hunc, Cytherea, virum.

XI. 81

Un vecchio e l'eunuco Dindimo tormentano insieme Egle,
e la fanciulla giace nel mezzo del letto a bocca asciutta.
Uno è inutile all'impresa per impotenza, l'altro per la tarda età:
perciò la loro fatica si riduce a un prurito senza risultato.
Supplice la fanciulla prega per se stessa e per i due infelici,
o Venere, di dare a uno la gioventù, all'altro la virilità
LXXXV
Sidere percussa est subito tibi, Zoile, lingua,
dum lingis. Certe, Zoile, nunc futuis.

XI. 85

Mentre leccavi, la tua lingua all'improvviso, Zoilo,
è stata colpita dal cielo. Sicuramente, Zoilo, ora tu fotti.
LXXXVII
Dives eras quondam: sed tunc pedico fuisti
et tibi nulla diu femina nota fuit.
Nunc sectaris anus. O quantum cogit egestas!
Illa fututorem te, Charideme, facit.

XI. 87

Una volta eri ricco: allora però eri uno che inculava [ragazzi]
e a lungo non hai conosciuto donna alcuna.
Ora insegui le vecchie. Cosa non spinge a fare la povertà!
È essa che ti fa fottitore, Caridemo.

           

LXXXVIII
Multis iam, Lupe, posse se diebus
pedicare negat Carisianus.
Causam cum modo quaererent sodales,
ventrem dixit habere se solutum.

XI. 88

Carisiano dice di non potere inculare,
o Lupo, da molti giorni ormai.
Chiedendogliene gli amici il motivo,
rispose di avere lo stomaco sciolto.
XC
Carmina nulla probas molli quae limite currunt,
sed quae per salebras altaque saxa cadunt,
et tibi Maeonio quoque carmine maius habetur,
"Lucili columella hic situ' Metrophanes";
attonitusque legis "terrai frugiferai",
Accius et quidquid Pacuviusque vomunt.
Vis imiter veteres, Chrestille, tuosque poetas?
Dispeream ni scis mentula quid sapiat.

XI. 90

Non lodi i carmi che vanno per un sentiero facile,
ma quelli che percorrono con difficoltà un terreno ineguale e sassoso.
A tuo giudizio il verso “Qui è sepolto Metrofane, colonnina
di Lucilio” supera per valore artistico i poemi di Omero;
e leggi con entusiasmo “ della terra produttrice di messi”
e qualunque cosa vomitata da Accio e Pacuvio.
Vuoi che io imiti, o Crestillo, i tuoi vecchi poeti?
Possa io morire, se tu non sai che sapore ha il cazzo.
XCIV
Quod nimium lives nostris et ubique libellis
detrahis, ignosco: verpe poeta, sapis.
Hoc quoque non curo, quod cum mea carmina carpas,
compilas: et sic, verpe poeta, sapis.
Illud me cruciat, Solymis quod natus in ipsis
pedicas puerum, verpe poeta, meum.
Ecce negas iurasque mihi per templa Tonantis.
Non credo: iura, verpe, per Anchialum.

XI. 94

Della grande invidia che mi porti e delle critiche che rivolgi
ovunque ai miei libretti, ti perdono: sei furbo, poeta circonciso.
E neppure mi curo del fatto che, pur calunniando i miei carmi,
li saccheggi: anche qui sei furbo, poeta circonciso.
Quello che invece mi dà fastidio è che, anche se sei nato
a Gerusalemme, inculi il mio ragazzo, poeta circonciso.
Ecco, tu neghi e giuri sul tempio di Giove.
Non ci credo: giura, o circonciso, su Anchialo.
XCIX
De cathedra quotiens surgis, iam saepe notavi,
pedicant miserae, Lesbia, te tunicae.
Quas cum conata es dextra, conata sinistra
vellere, cum lacrimis eximis et gemitu:
sic constringuntur gemina Symplegade culi
et nimias intrant Cyaneasque natis.
Emendare cupis vitium deforme? docebo:
Lesbia, nec surgas censeo nec sedeas.

XI. 99

Tutte le volte, che ti alzi da una sedia, l'ho già notato spesso, 
la povera tunica, Lesbia, ti incula.
Ti sforzi con la destra e la sinistra di tirarla via.
Ci riesci, ma con lagrime e gemiti: tanto forte essa viene catturata
dalla doppia Simplegade del tuo culo,
e penetra dentro le tue gogantesche natiche mitologiche.
Vuoi correggere questo brutto difetto? T'insegnerò io:
Lesbia, credo che tu non dovresti né alzarti né sederti.
CIV
Uxor, vade foras aut moribus utere nostris:
non sum ego nec Curius nec Numa nec Tatius.
Me iucunda iuvant tractae per pocula noctes:
tu properas pota surgere tristis aqua.
Tu tenebris gaudes: me ludere teste lucerna
et iuvat admissa rumpere luce latus.

XI. 104

O moglie, piègati alle mie abitudini, oppure vattene:
non sono né un Curio, né un Numa, né un Tito Tazio.
A me piace passare allegramente la notte bevendo:
tu bevi acqua e poi ti alzi in fretta, malinconica.
Tu ami il buio: a me piace giocare sotto la lucerna,
e mi piace darci dentro con la luce che penetra nella stanza.
Fascia te tunicaeque obscuraque pallia celant:
at mihi nulla satis nuda puella iacet.
basia me capiunt blandas imitata columbas:
tu mihi das aviae qualia mane soles.
Nec motu dignaris opus nec voce iuvare
nec digitis, tamquam tura merumque pares:
Tu ti nascondi dietro il reggiseno, la tunica e la scura vestaglia:
per me nessuna ragazza che giace sul letto è abbastanza nuda.
Io adoro i baci che imitano i baci delle tenere colombe,
tu mi dai quei baci che suoli dare alla nonna al mattino.
Non ti degni di facilitare i miei sforzi coi movimenti, con paroline,

né con le dita, quasi io preparassi incenso e vino per un sacrificio.

masturbabantur Phrygii post ostia servi,
Hectoreo quotiens sederat uxor equo,
et quamvis Ithaco stertente pudica solebat
illic Penelope semper habere manum.
Pedicare negas: dabat hoc Cornelia Graccho,
Iulia Pompeio, Porcia, Brute, tibi;
dulcia Dardanio nondum miscente ministro
pocula Iuno fuit pro Ganymede Iovi.
Si te delectat gravitas, Lucretia toto
sis licet usque die: Laida nocte volo.
I servi frigi si masturbavano dietro la porta 
tutte le volte che la moglie si sedeva sul cavallo di Ettore; 
e anche se Ulisse russava, la pudica Penelope
soleva tenere la mano sempre in quel posto.
Tu mi vieti di incularti: Cornelia lo dava a Gracco,
Giulia a Pompeo, Porcia a te, o Bruto;
quando il coppiere troiano non mesceva ancora il vino a Giove,
Giunone faceva con Giove la parte di Ganimede.
Se ti piace la serietà, ti permetto di essere Lucrezia
per l'intero giorno: di notte ti voglio Laide.





EPIGRAMMI da Libro 12  (n. 14)

XVI.
Addixti, Labiene, tres agellos;
emisti, Labiene, tres cinaedos:
pedicas, Labiene, tres agellos.

XII. 16.

Hai venduto, Labieno, tre campicelli;
hai comprato, Labieno, tre cinedi.
Tu inculi, Labieno, tre campicelli.
XXXIII.
Ut pueros emeret Labienus vendidit hortos:
nil nisi ficetum nunc Labienus habet.

XII. 33

Per comprarsi i ragazzini Labieno ha venduto i suoi giardini.
Adesso a Labieno le piante crescono nel culo.[49]
XXXV.
Tamquam simpliciter mecum, Callistrate, vivas,
dicere percisum te mihi saepe soles.
Non es tam simplex quam vis, Callistrate, credi.
Nam quisquis narrat talia, plura tacet.

XII. 35

Come se tu vivessi sinceramente con me,  
suoli spesso dirmi, Callistrato, che ti sei fatto rompere. [50]
Non è tanto semplice quanto vuoi far credere, Callistrato.
Perché chi racconta tali cose, ne tace parecchie.
XXXVIII.
Hunc qui femineis noctesque diesque cathedris
incedit tota notus in urbe nimis,
crine nitens, niger unguento, perlucidus
ostro, ore tener, latus pectore, crure glaber,
uxori qui saepe tuae comes inprobus haeret,
non est quod timeas, Candide: non futuit.

XII. 38

Quell'uomo che notte e giorno procede
su portantine da donna, noto in tutta Roma,
brillante nei capelli, nero per gli unguenti, splendente di porpora,
mellifluo nel parlare, largo di petto, liscio nelle gambe,
che sta spesso attaccato a tua moglie come un ostinato compagno,
non è quel che tu temi, Candido: non fotte.
XLII.
Barbatus rigido nupsit Callistratus Afro,
hac qua lege viro nubere virgo solet.
Praeluxere faces, velarunt flammea vultus,
nec tua defuerunt verba, Talasse, tibi.
Dos etiam dicta est. Nondum tibi, Roma, videtur
hoc satis? Expectas numquid ut et pariat?

XII. 42

Il barbuto Callistrato ha preso come marito il muscoloso Afro
secondo il rito con cui una vergine suole prendere marito.
Si sono accese le fiaccole, il velo ha coperto il volto,
e non ti sono mancati i tuoi canti, o Talasso.
È stata fissata anche la dote. Non ti sembra che
questo basti? Aspetti forse che l'uomo anche partorisca?
XLIII.
Facundos mihi de libidinosis
legisti nimium, Sabelle, versus,
quales nec Didymae sciunt puellae
nec molles Elephantidos libelli.
Sunt illic Veneris novae figurae,[51]
quales perditus audeat fututor,
praestent et taceant quid exoleti, [52]
quo symplegmate quinque copulentur,
qua plures teneantur a catena,
extinctam liceat quid ad lucernam.
Tanti non erat esse te disertum.

XII. 43

Mi hai letto troppe volte gli artistici versi
tratti dalle tue raccolte licenziose, Sabello,
cose che ignorano perfino le fanciulle di Didimo
e i libri debosciati di Elefantide.[53]
Qui ci sono nuove posizioni di Venere:
quali osi [provare] uno scopatore perduto,
quello che offrono, e ne tacciono, ragazzoni prostituti,  
in quale amplesso si accoppiano cinque persone,
quante persone si possano unire insieme a catena,
cosa sia lecito fare a lume spento.
Per queste cose non serviva che ti sforzassi tanto.
LV.
Gratis qui dare vos iubet, puellae,
insulsissimus inprobissimusque est.
Gratis ne date, basiate gratis.
Hoc Aegle negat, hoc avara vendit.
- Sed vendat: bene basiare quantum est! -
Hoc vendit quoque nec levi rapina:
aut libram petit illa Cosmiani,
aut binos quater a nova moneta,
ne sint basia muta, ne maligna,
ne clusis aditum neget labellis.
Humane tamen hoc facit, sed unum:
gratis quae dare basium recusat
gratis lingere non recusat, Aegle.

XII. 55

O ragazze, chi vi consiglia di concedervi gratis
è il più sciocco e malvagio degli uomini.
Non concedetevi gratis: gratis baciate.
Egle è contraria: nella sua avarizia vende anche questi.
Li venda pure: è una grande cosa saper baciare!
Vende anche questi e non a basso prezzo:
chiede una libbra di profumo cosmiano
o otto monete di nuovo conio,
a che i suoi baci non siano né silenziosi né scarsi,
e per non impedire l'ingresso della lingua serrando le labbra.
Senza nulla pretendere questo fa, ma questo solo:
lei che si rifiuta di dare gratis un bacio, 
gratis non si rifiuta di leccare, Egle.
LIX.
Tantum dat tibi Roma basiorum
post annos modo quindecim reverso,
quantum Lesbia non dedit Catullo.
Te vicinia tota, te pilosus
hircoso premit osculo colonus;
hinc instat tibi textor, inde fullo,
hinc sutor modo pelle basiata,
hinc menti dominus periculosi,
hinc et dexiocholus, inde lippus,
fellatorque recensque cunnilingus.
Iam tanti tibi non fuit redire.

XII. 59

Roma ti dà tanti baci,
appena tornato dopo quindici anni,
quanti non ne diede Lesbia a Catullo.
Ti baciano tutti i vicini di casa
e l'irsuto colono con la sua bocca che sa di capro;
di qua ti assale il tessitore, di là il lavandaio,
di qua il ciabattino che ha baciato un momento prima la pelle,
di qua il possessore di un mento pieno di pustole,
di qua il cieco di un occhio, di là un cisposo
e uno spompinatore, e uno che ha appena leccato una fica.
Non valeva proprio la pena di tornare!
LXXXV.
Pediconibus os olere dicis.
Hoc si, sicut ais, Fabulle, verum est:
quid tu credis olere cunnilingis?

XII. 85

A chi incula tu dici che puzza la bocca.
Se questo, Fabullo, è vero come dici tu:
come credi che puzzi la bocca di chi lecca fiche?
LXXXVI.
Triginta tibi sunt pueri totidemque puellae:
una est nec surgit mentula. Quid facies?

XII. 86

Hai trenta fanciulli e altrettante fanciulle: 
una sola è la tua minchia e non si drizza. Che farai?
XCI.
Communis tibi cum viro, Magulla,
cum sit lectulus et sit exoletus,
quare, dic mihi, non sit et minister.
Suspiras; ratio est, times lagonam.

XII. 91

Visto che in comune con tuo marito hai, Magulla,
il lettuccio e il suo giovane amante,
dimmi perché non dividi anche il coppiere.
Sospiri. C'è una ragione: temi la bottiglia[54].
XCV.
Musseti pathicissimos libellos,
qui certant Sybariticis libellis,
et tinctas sale pruriente chartas
instanti lege Rufe; sed puella
sit tecum tua, ne talassionem
indicas manibus libidinosis
et fias sine femina maritus.

XII. 95

Leggi pure, Instanzio Rufo,
gli oscenissimi libretti di Musseto,
che gareggiano coi libretti sibaritici
e i versi pieni di arguzie eccitanti.
Sia però con te la tua ragazza, affinché un imeneo
tu non abbia a intonare con le libidinose mani, 
e non diventi tu marito senza femmina.

           

XCVI.
Cum tibi nota tui sit vita fidesque mariti,
nec premat ulla tuos sollicitetve toros,
quid quasi paelicibus [55] torqueris inepta ministris,
in quibus et brevis est et fugitiva Venus?
Plus tibi quam domino pueros praestare probabo:
hi faciunt ut sis femina sola viro;
hi dant quod non vis uxor dare.'Do tamen', inquis,
'ne vagus a thalamis coniugis erret amor '.

XII. 96

Benché ti siano note la vita e la fedeltà di tuo marito,
e nessuna donna prema o a scuota il tuo letto,
perché sciocca ti tormenti per i suoi domestici come fossero suoi amanti,
quando con loro è solo Venere breve e fuggitiva?
Ti proverò che i ragazzi sono più utili a te che al padrone:
essi fanno in modo che tu sia la sola donna di tuo marito;
loro danno ciò che tu da moglie non vuoi dare. "Allora glielo dò",
dici, "affinché il suo amore non voli via dal letto nuziale".
Non eadem res est: Chiam volo, nolo mariscam:
ne dubites quae sit Chia, marisca tua est.
Scire suos fines matrona et femina debet:
cede sua pueris, utere parte tua.
Non è la stessa cosa: voglio un [fico di] Chio, non voglio una marisca.
Perché tu non dubiti su cosa sia un fico di Chio, la tua è una marisca.
Una matrona, una donna, deve conoscere i suoi limiti: 
lascia ai ragazzi la loro parte, tu utilizza la tua.
XCVII.
Uxor cum tibi sit puella, qualem
votis vix petat inprobus maritus,
dives, nobilis, erudita, casta,
rumpis, Basse, latus, sed in comatis,
uxoris tibi dote quos parasti.
Et sic ad dominam reversa languet
multis mentula milibus redempta;
sed nec vocibus excitata blandis,
molli pollice nec rogata surgit.
Sit tandem pudor aut eamus in ius.
Non est haec tua, Basse: vendidisti.

XII. 97

Benché tu abbia come moglie una ragazza, 
che nemmeno un marito esigente oserebbe sperare,
ricca, nobile, erudita, casta, 
tu ti rompi i fianchi, Basso, con chiomati [giovinetti]
che ti sei procurato con la dote di tua moglie.
E così il tuo cazzo, pagato molte migliaia di sesterzi, 
torna fiacco dalla sua padrona,
e non si rizza né sollecitato da tenere parole
né maneggiato da dita delicate.
Abbi finalmente un po' di pudore o andiamo in giudizio.
Questo [cazzo] non è tuo, Basso: l'hai venduto.






[1] nupsit , da nubo : (riferito a donne) sposarsi, prendere marito
[2] stolatum , vestito con la stola, matronale
[3] Edilo ovviamente è un pathicus, cioè un omosessuale passivo
[4] verna, ae : nato schiavo in casa
[5] commenta es : indicativo perfetto da comminiscor , escogitare
[6] probabile che tangi se digito tuo abbia un significato sessuale, cioè di essere penetrato in culo da un tuo dito
[7] nec pedico es nec fututor , tu non sei né inculatore [di ragazzi] né scopatore di ragazze
[8] le due cose che rimangono : farsi inculare o spompinare. Veramente sarebbero tre, perché la terza è farsi spompinare
[9] la terra Cadmo, figlio di Agenore : sta per la terra fenicia
[10] il tuo gregge di schiavetti, si presume
[11] in questo caso irrumatis è usato nel senso di sborrate , sporche di sperma . Deduco che irrumo (verbo) possa più significare venire in bocca , sborrare , piuttosto che metterlo in bocca
[12] sarebbe Ganimede
[13] Marziale avrebbe voluto credere che Febo fosse un'effeminato (mollem virum), che in genere è un passivo, ma le voci in giro negano che lui sia un cinedo, cioè uno che la piglia in culo:  gli resta quindi solo da pensare che Febo la succhi.
[14] mingo e meio stanno entrambi sia per urinare che per eiaculare : propendo per la seconda ipotesi
[15] non possono vendicarsi mettendogliela in bocca, perché a lui tirare pompini piace!
[16] pedicaris, da pedico , inculare (in genere un ragazzo : pais, paidòs); ceves, da ceveo , sculettare
[17] da garrio, cianciare
[18] se l'afferra glielo ficcherà in bocca, e quindi a bocca occupata Gariglio non potrà che tacere
[19] cinaedus deriva secondo me da κινέω, muovere (vedi: cinetico) + αδώς, -ος, , qui n.pl. che sta per parti vergognose, da tenere nascoste, in questo caso il culo; quindi, cinedo è letteralmente cin-edo , muovi-culo , e cioè uno che la piglia in culo
[20] desieris: da desino , finire , avere fine
[21] Lex Julia de maritandis ordinibus, voluta da Augusto nel 18 a.C. contro il calo demografico. Imponeva di sposarsi ai single (vedovi/e, celibi/nubili, divorziati/e): le vedove dovevano risposarsi entro 90 gg, le divorziate entro un anno, o perdere parte dell'eredità
[22] nel senso che essendo caduto in miseria non ha più soldi per pagare ragazzi con cui fare sesso, per cui non gli resta che fottere, questo ovviamente senza pagare nulla
[23] il senso è che le maldicenze dicono che Caridemo, pur villoso, non era uno che pigliava cazzi in culo, ma … in bocca!
[24] il Cinife era un torrente libico; cinyphio marito tutti intendono che sia il maschio della capra libica
[25] dovrebbe essere Eiarinos, coppiere dell'imperatore Domiziano, richiamato anche nell'epigramma 11 del libro IX
[26] paelex , amante, concubina, amasio, favorito
[27] iaculum , dardo, giavellotto
[28] casa, casae : baracca, tugurio, tenda
[29] pollicitast = pollicita est , da pollicitor : promettere spesso, impegnarsi ripetutamente
[30] Elena [di Troia], figlia di Tindaro
[31] al solito, cinedo sta per  pigliainculo, passivo
[32] Elicona , monte della Beozia sacro alle Muse
[33] probabile che il vate sia Lucano, che fu marito di Polla
[34] Κύριέ μου, μέλι μου, ψυχή μου, pronuncia:  "kiuriè mu, meli mu, psiuchè mu", Mio signore, miele mio, anima mia
[35] …e così uno glielo mise dietro, e l'altro davanti.
[36] è Ganimede il finocchio del monte Ida
[37] congiuntivo pres. da pedico , inculare
[38] percidit , da percido : spaccare, fare a pezzi, rompere, qui in senso figurato: gliel'ha messo in culo, l'ha sodomizzato
[39] in puero e non cum puero : "per avermi sorpreso dentro un ragazzzino, cioè mentre la mettevo in culo a un ragazzino"
[40] il Tirinzio è Ercole
[41] incurvabat : lo faceva curvare [per incularlo]
[42] Megara , moglie di Ercole; Oebalius puer , Giacinto, amato da Apollo, che secondo alcuni era figlio di Ebalo re di Sparta
[43] Aeacides, ae : Achille , discendente di Eaco
[44] conclusione implicita è che Cantaro non incula né scopa, ma spompina e lecca fiche
[45] il verbo greco λαιϰάζϵιν o λαιϰάζω  significa, per il Rocci " mi prostituisco, fornico" e forse è equivalente al latino fellare : spompinare; senza la iota invece, λαϰάζω, non ha senso, perché significa sgridare  Comunque, il finale è difficile da comprendere. Qualcuno il verbo greco lo intende un po' modificato e traduce: dopo la pulitura con la lana, il mio cazzo dirà alla tua smaniosa avidità di andare a farsi fottere, o di andare a prostituirsi
[46] ulcus , ferita , piaga , e in senso figurato fessura della fica, ma tale traduzione viene meno perché nel finale dell'epigramma Marziale chiede agli dei che Flogis potesse avere il corpo come quello di Chione, quindi fica compresa. Quindi ulcus va interpretato non come fica, ma come libidine
[47] Critone, famoso medico, maschio; Igea, dea greca della salute, femmina. Ergo, ci vuole un maschio per sanare quella "ferita"
[48] dovrebbe significare che Nanneio con le donne si dedicava a leccare, coi maschi a spompinare
[49] dal doppio senso di ficetum , ficheto , piantagione di fichi, o scherzosamente emorroidi , nasce il gioco di parole dell'epigramma
[50] da percido , fare a pezzi , rompere , e in senso figurare inculare
[51] novae figurae Veneris , nuove posizioni di accoppiamenti sessuali
[52] con exoletus si intende in genere amante omosessuale non più ragazzino, senza specificare se attivo o passivo
[53] Didimo forse è un lenone; Elefantide una poetessa greca, autrice di poesie oscene, ammirate anche dall'imperatore Tiberio
[54] forse perché potrebbe contenere veleno, si presume
[55] da paelex (s.f.) : amante, concubina, amasio, favorito

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